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Home Politica

Apre Porta di Orvieto. Da un vuoto di visione all’altro … carpe diem

Redazione by Redazione
12 Novembre 2013
in Politica, Secondarie, Archivio notizie
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di Massimo Maggi

Il discorso inaugurale condotto da chi dovrebbe sostenere la città e non sponsorizzarla a fini devastanti e privatistici mi lascia sgomento. Parole vuote come ‘si intravede la fine del tunnel‘ fuori luogo come appunto è l’ennesima cattedrale nel deserto. Ancora una volta si utilizza il disastro, tra l’altro scampato per poco, per trasformarlo in opportunismo ed opportunità privata. All’oratore occasionale, che dimentica spesso la funzione istituzionale, ‘non interessa né passato, né presente e né futuro’. Ma del loro ‘ora e adesso‘ è inutile parlarne. Cerchiamo di capire cosa è realmente successo e a cosa andremo inevitabilmente incontro.

La Città si è arresa agli eventi e stupra l’ultima possibilità di territorio sostenibile per dar spazio a non-luoghi di aggregazione finalizzati alla  celebrazione del prodotto: la periferia delle città abdicherà alle cattedrali del consumo  dove si può, teoricamente, passare la vita. Tutto questo sta accadendo anche ad Orvieto. E pensare che fino a qualche decennio fa l’organizzazione degli spazi di consumo era guidato dall’imperativo di rendere più rapido ed efficiente il processo di acquisto, oggi l’obiettivo è un altro: nelle cattedrali del consumo, la prima cosa a dover essere consumata – gratuitamente – è l’esperienza. Per ogni centro commerciale o ‘non luogo di consumo’ (e non è il primo ad Orvieto) le piazze si svuotano, il centro cittadino si riempie di uffici e il resto è abbandonato al degrado urbano. La nostra Città sta perdendo la sua identità a causa della chiusura delle piccole attività e della loro trasformazione in dormitori o garage privati; La causa principale di questo degrado, oltre all’assenza di un’amministrazione capace di programmare, c’è l’abbandono, forzato o meno, dei luoghi tradizionali della vita sociale (il cortile, la piazza e i suoi bar, il mercato, il centro storico). La socialità della nostra cittadina è destinata così ad incanalarsi verso ‘non luoghi’ in cui non si scambieranno esperienze ma dove invece ci troveremo costretti a seguire percorsi predefiniti che portano soltanto al consumo di un prodotto o di un servizio. Non si uscirà più di casa per il gusto di incontrare e conoscere gli altri, per parlare, per discutere, per godere dell’ambiente: in assenza di relazioni sociali soddisfacenti, cercheremo inconsciamente nell’acquisto di una merce un surrogato di queste relazioni. Queste strutture accelerano e rendono irreversibile l’isolamento dell’individuo, a cui non rimarrà che scaricare la sua frustrazione nel consumo eliminando la “distrazione” del vivere sociale!

Come è potuto accadere tutto ciò? Molto è dipeso dalle scelte urbanistiche disattente e non condivise: scelte consapevoli delle amministrazioni e delle imprese e non certo casuali. Non servono grandi teorizzazioni per spiegare questi concetti: basta prendere il caso della nostra città. Anni fa gli orvietani erano abituati a soddisfare i propri bisogni e necessità all’interno dei quartieri in cui risiedevano. Chiunque abbia ancora una vaga idea di queste esperienze sa bene che è inevitabile e piacevole conoscersi e parlare con i negozianti e i vicini di casa; ci sono i tempi e i luoghi per stringere rapporti umani, anche se si sta comprando un chilo di arance o si sta bevendo un caffè. La Città – luogo naturale – creava una rete fatta dall’intersezione di questi rapporti personali: quel tessuto sociale che stiamo distruggendo di giorno in giorno.
Quando una comunità è inserita all’interno di un tessuto sociale è capace di svolgere due funzioni vitali: la solidarietà e l’autoregolamentazione delle tensioni interne. La conoscenza e la fiducia reciproca tra gli abitanti  consente, in caso di difficoltà, di attivare quei meccanismi di aiuto e sostegno, perché ognuno sa che verrà ricambiato. I casi di violenza privata e comportamenti dannosi per la collettività avevano dunque naturali ammortizzatori e regolatori. Ora invece è possibile andare ogni giorno  all’Ipercoop, o in un qualsiasi altro centro commerciale, senza mai rivolgere parola a nessuno, o senza mai neanche incrociare lo sguardo di un cassiere (sempre di meno e sempre più robotizzati). Questo ci porterà a vivere la nostra Città come un dormitorio non avendo neanche più la possibilità di conoscere chi vive nel portone davanti identificandolo solo come un possibile ostacolo alla fila delle casse automatiche. Da un punto di vista economico e commerciale è abbastanza curioso come i nostri amministratori non abbiano sentito la necessità di evidenziare il fatto che la ricchezza prodotta dal lavoro di chi vive all’interno di un quartiere “vivo” ritorna in parte all’interno del quartiere stesso, grazie alla microeconomia delle botteghe e delle piccole attività, che a loro volta producono occupazione per chi vive in quei luoghi.  Alle dirigenze dei grandi Centri Commerciali è normale che non interessi se i quartieri perdono vita e se si annientano comunità di persone che esistevano da decenni. A loro non interessa se aumenta la solitudine, la depressione, la violenza domestica, la tossicodipendenza, il disagio giovanile e tutti quei fenomeni che sorgono quando gli individui non si sentono parte di una collettività. Il loro unico obiettivo è riuscire a strappare il cittadino dal proprio ambiente sociale per trasformarlo in un consumatore a tempo pieno; è per questa ragione che i grandi centri commerciali sono sempre aperti, tutti i giorni e a tutte le ore. Quello che non è normale è l’indifferenza dei nostri amministratori comunali il cui ruolo è quello appunto di preservare e garantire la sostenibilità del tessuto sociale. Purtroppo le grandi catene di distribuzione trovano spesso il benestare delle amministrazioni in queste operazioni, e ancora una volta Orvieto non fa eccezione. Il modello del consumo di massa si deve imporre in tutta la città, e per renderlo appetibile sono necessarie trasformazioni urbane che rendano agevole e quasi naturale l’accesso ai grandi centri commerciali. Distruggere la viabilità, ignorare una sana mobilità, solo per creare un accesso (ad alto impatto) alla Porta di Orvieto è un esempio di scelta urbanistica volta a favorire queste operazioni estremamente lucrative per gli imprenditori, ma tremendamente dannose da un punto di vista sociourbanistico e culturale.
Se ad Orvieto si concederanno ancora nuove autorizzazioni per altri megastore, per sale Bingo o Casinò, bande di ragazzini passeranno le giornate aggirandosi in ‘Non Luoghi’ … Quali stimoli riceveranno dall’ambiente sociale che li circonda?

Spesso quando si vuole giustificare l’insediamento di un grande polo commerciale in un territorio, come in questo caso, si fa leva sulla creazione di posti di lavoro e alle opportunità di “sviluppo”. Ma sappiamo bene che dietro a questo ragionamento si celano numerose falsità, tra l’altro abbastanza evidenti … Poche decine di posti di lavoro precari, con contratti a tempo determinato, con dubbie selezioni e spesso part time non possono certo rappresentare un’opportunità, soprattutto se paragonato ai posti di lavoro persi a causa della chiusura di piccole e medie attività incapaci, loro malgrado, di reggere la concorrenza. Per quanto riguarda il ruolo di motore dello “sviluppo” delle cattedrali di consumo è veramente curioso come imprenditori (affittuari degli spazi) e sindaci non facciano mai ricorso alla semplice logica nei loro discorsi. Non servono infatti lauree in economia per rendersi conto che i centri commerciali non producono ricchezza per un territorio, ma la sottraggono. Spesso la grande distribuzione viene presentata come ancora di salvataggio.  In questi anni la nostra città sta attraversando un momento estremamente difficile e delicato: una profonda crisi economica si è abbattuta sui settori produttivi di punta e non ci sono all’orizzonte ipotesi di riconversione credibili e attuabili nell’immediato. Le conseguenze cominciano a farsi sentire pesantemente: disoccupazione, carovita, emergenza abitativa, sicurezza sono problemi all’ordine del giorno.
Questa situazione-tipo è esattamente ciò che cercano le grandi catene di distribuzione: mirano a spolpare i territori, che per tamponare l’emorragia economica accettano di svendersi sia dal punto di vista delle concessioni e delle scelte urbanistiche che dal punto di vista dei diritti dei lavoratori. Questi ultimi sono sottoposti a condizioni dure ed umilianti: straordinari, festivi obbligatori, orari che mutano ogni giorno, ferie non concordate sono la normalità. Il personale, molte volte di giovane età e senza qualifiche, viene assunto con contratti atipici e a tempo determinato, e le buste paga sono estremamente basse. In questo momento in Italia i grandi magazzini sono i luoghi di lavoro in cui la precarietà è maggiore. Da tutti questi elementi è facile capire che i (pochi) posti di lavoro che crea l’insediamento di un centro commerciale non sono per la propria natura in grado di soddisfare le esigenze di stabilità di un individuo o, meno che mai, di una famiglia.
Sarebbe interessante sapere dal Sindaco se questi temi sono stati affrontati durante le loro ‘serie ed approfondite discussioni‘ e quali “strategie di sviluppo” stanno dietro a queste scelte. A noi sembrano insensate. Ma forse un senso per loro ce l’hanno

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