di Mario Tiberi
Di Patti, nel corso dei secoli, se ne sono succeduti a bizzeffe. Quando gli uomini, di fronte alle emergenze della storia perdono gli orientamenti, trovano utile e conveniente rivolgersi a delle intese tra di loro finalizzate al salvataggio, più o meno morale o più o meno strumentale, di realtà obiettivamente sull’orlo della catastrofe ma, delle quali, è opportuno se non necessario ricercarne la soluzione, possibilmente fino a raggiungerla.
E così, a cadenze quasi cicliche, si sente vociferare di patti etici, spesso bistrattati e a volte anche rigettati come fossero carta straccia; di patti per le civili abitazioni con fluttuazioni rivolte, non tanto a sani investimenti in mattoni e cemento, quanto piuttosto a scellerate speculazioni edilizie; di patti per la salute pubblica nel cui contenuto, però, non si ravvisa molto a sostanziale salvaguardia del benessere psico-fisico dei cittadini se non, disgraziatamente, generiche dichiarazioni di soli buoni propositi.
Di questo passo e così via dicendo, se ne potrebbero elencare una lunghissima serie; ciò che però non funziona nelle pattuizioni risiede nel fatto che, troppo frequentemente, ci si dimentica del principio essenziale che sta al fondamento del patto medesimo, inteso come forma ordinamentale, e che è ben riassunto nell’antico adagio, espresso con l’uso della perifrastica passiva, contenendo in sé il senso del dovere: “Pacta Servanda Sunt”.
Non credo infatti di proferire qualcosa di non vero se affermo, con decisione, che è molto facile ed agevole stipulare dei patti mentre, invece, è ben più arduo e impegnativo il saperli, poi, rispettare.
All’inizio del decennio in corso, in Città si aprì e tenne banco il dibattito su un provvidenziale accordo, tra le forze politiche rappresentate in Consiglio Comunale, per un tentativo estremo di uscita a testa alta dalle secche della paralisi amministrativa e contabile.
Chiunque possieda una dose, seppur minima, di buon senso e di cognizione delle pubbliche responsabilità non può, almeno nei suoi tratti elementari, sottrarsi dal riflettere su siffatta prospettiva in virtù dell’obbligo morale e giuridico che, quando la nave sembra essere in procinto di affondare, a nessuno dell’equipaggio è consentito di abbandonarla e, tanto meno, al suo capitano.
Ma, per evitare il naufragio e riportarla in condizioni di sicuro galleggiamento, alcuni rischi con possibili fallimenti bisogna pur correrli, anche se calcolati e ben distribuiti tra le forze in campo.
Il primo rischio, con annesso fallimento, è stato in capo al Sindaco in carica poiché non è riuscito ad amalgamare, facendola ben funzionare, l’iniziale coalizione di centrodestra che lo ha appoggiato e sostenuto e, ciò, in quanto quest’ultima ha fornito, nel tempo, evidenti segni di inadeguatezza e sfilacciamento proprio sul terreno della sua tenuta istituzionale, nonostante l’apporto seppur solo numerico e quantitativo di transfughi trasformisti, a tutti noti, e dato che la qualità politica ha tutt’altra dimensione. E, infatti, tale precaria condizione ha comportato il rovescio della programmazione e della realizzazione delle linee di indirizzo del governo del Sindaco per la Città poiché, in tutta franchezza, quanto programmato e realizzato fino ad oggi è palesemente deludente e molto al di sotto delle aspettative generali e di quanto promesso durante le fasi della campagna elettorale.
Il secondo rischio, anch’esso fallimentare, lo ha corso, e lo corre tuttora, la minoranza di centrosinistra in virtù del fatto che la sin qui praticata “politica della blanda opposizione” ha rivestito ed assunto i connotati del respiro corto per tutto l’arco della consiliatura e, conseguentemente, ha prodotto il vanificarsi del suo ruolo di controllo, di pungolo e di stimolo costruttivo per l’azione di governo del Sindaco e perché il lasciar correre , sempre e comunque, si è ammantato a lungo andare del sapore incomprensibile ed inaccettabile del disimpegno, dell’indifferenza e dell’assenza sia politica che etica.
Al contrario, le forze politiche minoritarie avrebbero dovuto accollarsi l’onere di esercitare una costante e robusta spinta propulsiva sul piano delle iniziative di innovazione progettuale e non, come invece è accaduto, abdicare o scendere a livelli di subalternità, di utilitaristico collaborazionismo o di solo comprimariato.
E’di tutta evidenza, a questo punto del ragionamento, che il rischio di maggiore elevazione in grado, accompagnato da danni ancora incalcolabili, è ricaduto sulla testa della collettività orvietana poiché, essendo rimasta senza guida stabile e sicura degli approdi a cui ancorarsi, ha subito il drammatico destino dell’essere stata in balia di accidenti fuori controllo e, dunque, ingovernati in quanto ingovernabili.
Si vuol proseguire imperterriti su codesta strada?. Consiglierei proprio di NO!.
E allora non resta altra possibilità se non volgere lo sguardo altrove e rifiutare l’ascolto, in via definitiva, del canto sì melodioso, ma ingannevole, dei partiti nazional-tradizionali, quali principalmente PD e PDL-FI, armeggioni e intrighisti.
Volgere lo sguardo altrove vuol significare l’adesione civica al “ Patto “ di comunanza popolare, così definito perché proveniente dal popolo, intriso della sostanza del popolo, marciante ed avanzante assieme al popolo, volto esclusivamente al Bene del popolo.
“Dal Popolo, del Popolo, con il Popolo, per il Popolo” !.
Dei suoi contenuti, i mesi a venire ne saranno fedeli testimoni.