Dal globale …
Italiani ignoranti, Italia in declino irreversibile?
Caro Pier,
lo scorso 16 ottobre in un rapporto della London School of Economics si potevano leggere queste parole: “Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampante terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale”. Questa potrebbe essere solo un’opinione esagerata, frutto di una visione parziale o magari interessata, ma non è certamente un’opinione il fatto che dall’indagine OCSE sulle competenze alfabetiche e matematiche della popolazione di 24 Paesi sviluppati emerge che gli italiani sono ultimi in italiano e penultimi in matematica. A questo proposito ti riproduco di seguito la presentazione del rapporto che ne fa l’Huffington Post del 10 ottobre. Naturalmente ne è seguita la consueta discussione nevrotica e lamentosa ed è venuto fuori di tutto, a partire ovviamente dalle responsabilità dalla scuola e della politica. Io mi sono chiesto: ma ce ne accorgiamo solo ora che l’OCSE ci sciorina giù i suoi dati? Bastava osservare tanti fenomeni e accadimenti che si svolgono sotto i nostri occhi da tanto tempo. Bastava chiedersi da dove veniva fuori quel tipo di classe dirigente ignorante e prepotente che è presente un po’ dappertutto. Io sono sinceramente triste e preoccupato. So però che bisogna non arrendersi e reagire. Tu che ne pensi?
Franco
“Ultimi per conoscenze di base, penultimi per capacità di calcoli. Lo rivela uno studio dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il primo del genere, che ha analizzato le competenze di 166mila persone tra i 16 e i 65 anni in 24 Paesi del mondo cosiddetto sviluppato. La ricerca ha considerato non solo le capacità di leggere e scrivere, ma anche di risolvere problemi e di utilizzare la tecnologia, strumenti chiave per ottenere e mantenere un lavoro. La ricerca, condotta in Italia da Isfol, non consegna risultati incoraggianti e vede il nostro Paese in fondo graduatoria nelle competenze alfabetiche (competenze, riferisce lo studio, “fondamentali per la crescita individuale, la partecipazione economica e l’inclusione sociale”). In una scala che va da zero a 500, nelle competenze alfabetiche il punteggio medio degli adulti italiani è pari a 250, contro una media Ocse di 273. Numeri ancora più bassi se si considera i Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, a cui è attribuito un punteggio medio di 242. Non migliore il posizionamento nelle competenze matematiche (numeracy), “fondamentali per affrontare e gestire problemi di natura matematica nelle diverse situazioni della vita adulta”. La media italiana in questo caso è pari a 247 rispetto a 269 della media Ocse e il nostro Paese occupa la penultima posizione, seguita solo dalla Spagna. Su una scala da 1 a 6, inoltre, solo il 29,8% degli adulti italiani si colloca al livello 3, considerato il minimo indispensabile per “vivere e lavorare nel xxi secolo”. Per quanto riguarda le competenze matematiche la percentuale scende al 28,9%. L’indagine complessiva dell’Ocse riguarda 24 Paesi e permette anche confronti interessanti. Così ad esempio, quanto a conoscenze di base, nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni, un “giovane” giapponese diplomato alle scuole superiori registra circa lo stesso livello di un italiano in possesso di una laurea”.
Se l’Ocse stralciasse dall’Italia la Campania, la Calabria, la Basilicata, Il Molise, la Puglia, la Sicilia e la Sardegna e si occupasse con le sue indagini di quel che resta, quello Stato virtuale salterebbe ai primi posti della classifica. E la Magna Graecia farebbe pari e patta con la Grecia. Questo per dire, magari in modo sgradevole e politicamente scorretto, che il problema dell’Italia nello stare al passo coi Paesi più sviluppati è il Mezzogiorno. E non per colpa della gente del Mezzogiorno, ma della storia e della geografia. La Finlandia, che l’Ocse colloca in alto, ha un territorio pieno di ricchezze dove pochi milioni di abitanti vivono prevalentemente in villette immerse nel verde tra un lago e l’altro. Lì non mancano di niente e non danno fastidio a nessuno, nemmeno quando passano sei mesi invernali a ubriacarsi e spesso, se non li ammazza l’alcool, si ammazzano silenziosamente da soli. Con ciò non nego l’utilità delle statistiche; ma resto in attesa, come si suol dire, che l’Ocse spenda qualche soldo di quelli che prende anche dai contribuenti italiani per elaborare una strategia poliziesca per distruggere le mafie. Posso inviare all’Organizzazione, tanto perché cominci a lavorarci, una biografia del prefetto Mori. In ogni modo, più m’invecchio e più sogno di ritirami a Napoli, o sulla costa Smeralda, o fra i trulli della Capitanata o sotto il cielo cobalto di Pantelleria.
… al locale
Fine del Tribunale figlia della politica dello sguardo corto
Caro Franco,
ti propongo questo pezzo “lirico” dell’avvocatessa e scrittrice Aurora Cantini. Sulla vicenda del Tribunale era stato detto di tutto e a volte molto bene, perché ci si erano messi d’impegno i migliori avvocati orvietani. Ma questo pezzo mi ha commosso e, nello stesso tempo, mi ha fatto ancora di più arrabbiare, nonché sperare, se non altro, in una positiva indignazione degli Orvietani. Tu come la vedi?
Pier
“Volevo infatti esserci quando gli altri, per sacrosante ragioni, non potevano essere presenti; volevo esserci per stare con lui, da sola , nel silenzio delle sue stanze, immersa nella giusta atmosfera stimolante pensieri e riflessioni. Per recuperare, insomma, un momento di intimo raccoglimento, come quando si sente quel bisogno improvviso di entrare in chiesa, fuori dalla ufficialità delle funzioni religiose.Attraversando l’androne del Palazzo vecchio, ormai ridotto a deposito provvisorio di merci in partenza, e salendo le scale fino alla sommità, ho trovato porte serrate dappertutto; chiuso l’accesso al “cuore del Tribunale”, all’ Ufficio della Procura e a quello del Casellario Giudiziale. Fogli divelti dalla bacheche, annunci ripiegati su se stessi, locandine cascanti come salici piangenti. Nastri adesivi alle porte interne per impedire l’accesso “agli estranei” durante le operazioni di trasloco dei faldoni. Tutto regolare, per carità, ma posso sentirmi come un’estranea in quell’ambiente che, fino all’altro giorno, era il mio ambiente, era il nostro ambiente di lavoro? Un tristissimo pensiero mi è passato per la mente mescolato alla strana sensazione che ho provato nell’aggirarmi in un Palazzo di Giustizia completamente deserto, dove il solo rumore che percepivo era quello dei miei passi. Varcata la Sala delle Udienze, unico luogo che ci è permesso ancora di frequentare, avvolta da un silenzio surreale, ho capito che lì, proprio lì , giaceva il “Moribondo”. Seduta al suo capezzale ad osservarlo, ho notato come il suo “look” sia maledettamente peggiorato. Esangue e spossato, devastato da profondi squarci sul corpo. Ma, sia chiaro, non è una malattia incurabile che lo ha ridotto in quello stato, lo sappiamo bene tutti! Sono le ferite inferte, a più riprese, dalle mazzate di normative raffazzonate, partorite dai nostri “Grandi Cervelli” annidati nei Soliti Palazzi che, come un rullo compressore, lo hanno travolto e debilitato, sconvolgendo la vita della comunità che intorno a Lui gravitava e traeva linfa vitale .Così la sua agonia prosegue inesorabile e il senso dell’abbandono sta per prendere il sopravvento. Ormai tutto sembra detto, compiuto, irrimediabilmente deciso. Ma possiamo, noi Orvietani tutti, fare ancora qualcosa per rivitalizzare l’Infermo, per infondergli quell’anelito di vita che, come per miracolo, lo possa risvegliare dal coma vegetativo indotto forzatamente dall’Alto e che lo sta conducendo lentamente verso la Fine? Francamente non lo so, ma non dobbiamo rassegnarci, non dobbiamo perdere la speranza, anche la più flebile, che forse qualcosa di nuovo e di positivo potrà ancora germogliare da questo campo di tristezza e desolazione”.
Sì, bello questo pezzo di Aurora Cantini, direi addirittura esemplare. Esprime infatti un sentimento che da personale diventa naturalmente collettivo, e soprattutto non trasforma in lamento il sacrosanto giudizio negativo sulla vicenda, ché, anzi, al contrario diventa un invito a non rassegnarsi, a non perdere la speranza che qualcosa si possa comunque fare. Tu auspichi che ne venga fuori una positiva indignazione degli orvietani. Mi associo, magari il risultato fosse almeno un’indignazione diffusa! La stessa ad esempio che ha incominciato a serpeggiare per la vicenda del Paglia e che si è manifestata venerdì mattina con la marcia di protesta per come (non) vengono fatti gli interventi necessari. Ma all’indignazione deve seguire l’azione. Che non può fermarsi alla protesta del momento, come dimostra appunto l’attività dell’associazione “Val di Paglia Bene Comune” e del “Comitato 12 novembre”. In sostanza io credo che la vicenda del Tribunale non sia riconducibile solo alla pochezza della politica nazionale, ma anche alla debolezza della politica locale, all’isolamento di Orvieto, all’incapacità della sua classe dirigente di delineare ormai da molto tempo una strategia per il futuro. Orvieto è stata a lungo zona marginale, e gran parte della sua classe dirigente nel tempo si è adeguata a questa condizione. Così, quando qualche decennio fa una parte di essa si ribellò a questo che veniva vissuto come destino immodificabile e delineò una possibile via d’uscita con un’ambiziosa linea progettuale, si trovò contro appunto quella preponderante classe dirigente che era ostile ad ogni cambiamento. E non a caso il bersaglio fu la politica progettuale (inserimento di Orvieto nei processi di modernizzazione, il suo ruolo territoriale, la sua funzione di cerniera interregionale). Gli innovatori, che sfidavano insieme i conservatori di ogni specie che si accontentavano della marginalità e i poteri centralistici regionali e provinciali, furono sconfitti. Si affermò la cultura della rinuncia e la conseguente politica dello sguardo corto. Se si esaminano le tappe fondamentali della vicenda orvietana degli ultimi vent’anni si potranno leggere in piena luce le conseguenze del dominio della politica dello sguardo corto, che si porta dietro ovviamente il personalismo, la disgregazione, la lotta perenne sul niente. Così la città va a ramengo. Si provi a fare l’elenco delle distruzioni già avvenute: è impressionante. E se non si fa una svolta, altre seguiranno. Certo, bisogna reagire, ed è da lì, da ciò che vent’anni fa fu stupidamente liquidato, e dunque da una moderna, aggiornata, politica progettuale di ampio respiro, che bisogna ripartire per riprendere fiducia e guardare avanti, ad un futuro possibile. Se ci si chiude dentro le mura cittadine, come si può pensare di essere sede di strutture con valenza territoriale? Solo una politica territoriale può consentirci di esercitare un ruolo che richiede servizi territoriali. Si tratta di processi complessi e molto impegnativi. E i risultati non dipenderanno dal raccomandarci a qualche santo protettore. Con tutto il rispetto.
La foto “Circo a Orvieto” pubblicata in home è di Piero Piscini