Dal globale …
Sul significato e la portata della cultura riformista
Caro Pier,
questa settimana ti propongo di commentare questo brano di un saggio di Luciano Pellicani sul contrasto di Craxi al massimalismo di sinistra pubblicato sul Foglio lo scorso 29 settembre. La ragione principale è la mia convinzione che uno degli aspetti più rilevanti dell’anomalia italiana (gli ottimisti ovviamente la chiamano originalità) sia stata la presenza di un forte massimalismo di sinistra, che, affiancato da un attivo estremismo di destra e da un melmoso equilibrismo di centro, nei fatti ha impedito i necessari processi di modernizzazione ed ha prodotto quello stato di oscillazione permanente tra conservazione di non si sa che cosa e di aspirazione al cambiamento in non si sa quale direzione che ci ha portato alla situazione attuale di perniciosa progressiva involuzione. A tutti i livelli, compreso il nostro. C’è poi una seconda ragione. Si tratta del fatto che io ho sperimentato sulla mia pelle le conseguenze di una battaglia riformista all’interno del PCI e conosco perciò da vicino le conseguenze della cultura massimalista. Dunque, se è vero che il massimalismo, anche quando si definisce progressista, si trasforma di fatto in cieco conservatorismo, allora la battaglia fondamentale, anche la nostra, è di tipo politico-culturale, ed è quella per l’affermazione delle idee riformiste liberalsocialiste e cattolicoliberali, naturalmente alleate in direzione da una parte della popperiana “società aperta”, e dall’altra del metodo riformatore. Forse non sarebbe male se in questo senso si organizzassero corsi (gratuiti) di cultura politica. Tu che ne pensi?
Franco
“Ebbene: Craxi osò discutere l’“indiscutibile”. Non solo si dichiarò apertamente riformista, ma ebbe l’ardire di fare quello che nessun leader politico della sinistra italiana aveva osato fare: si richiamò esplicitamente alla eredità del revisionista Bernstein! Era, quella di Craxi, una posizione ad altissimo rischio, poiché nel suo stesso partito – ritornato a essere, dopo la fallimentare unificazione socialista, un mal riuscito clone ideologico del Pci – il revisionismo era guardato come il fumo negli occhi. Basterebbe solo questo per smentire l’idea, molto diffusa, secondo la quale Craxi ebbe una sola passione: il potere per il potere. Che la passione per il potere è stata in Craxi – come, del resto, in qualsiasi leader politico degno di questo nome – forte è cosa incontestabile. Ma ancora più forte, in lui, fu l’appassionato attaccamento ai valori del socialismo liberale. Lo prova, per l’appunto, il coraggio che egli dimostrò nel contestare apertamente e frontalmente quello che era diventato il “senso comune” di quasi tutta la sinistra italiana. Un “senso comune” che regnava con l’arma tipica della tradizione bolscevica: il terrorismo ideologico. Su chiunque osava criticare il marxleninismo, si abbatteva, puntuale e implacabile, l’arma della scomunica: diventava un traditore dell’idea socialista e, come tale, veniva bollato. Il terrorismo ideologico, in quegli anni, era così potente che persino i dirigenti del Psdi, per mantenere una qualche credibilità, si dichiaravano marxisti. Ma non Craxi. E questo non solo perché le sue convinzioni politiche erano in netto contrasto con l’ideologia allora imperante, ma anche e soprattutto perché era giunto alla ragionata conclusione che il massimalismo, che della ideologia marxista era la logica conseguenza politica, avrebbe portato l’Italia al disastro. Di qui la sua avversione al compromesso storico, cioè alla strategia con la quale Enrico Berlinguer intendeva realizzare nel nostro paese un inedito esperimento: innestare il pluralismo politico sul tronco della tradizione terzointernazionalista. Era, quella di Berlinguer, una nobile quanto accecante illusione. Ed era anche una illusione ad altissimo rischio per il nostro paese, se è vero, come è vero, ciò che Walter Veltroni ha finalmente riconosciuto, e cioè che comunismo e libertà sono cose incompatibili. Ma questo Berlinguer, tutto chiuso nelle sue certezze ideologiche, non poteva neanche sospettarlo. Accadde così che egli progettò di estrarre dal marxleninismo una nuova versione del comunismo: la così detta ‘terza via’”.
Che fosse possibile battere il massimalismo comunista senza conquistare il potere e senza mantenercisi, a costo di violare la legalità, ci possono credere solo le finte anime candide che rimpiangono la DC, più avida di Craxi e per di più compromessa con la mafia, e quelle che rimpiangono il PCI, foraggiato illegalmente dal nemico e autoforaggiantesi con gli appalti nelle regioni rosse. Ma Craxi cadde nella trappola della magistratura, come ci cadde la DC insieme ai partitelli liberal-democratici. La disgrazia della DC e della democrazia italiana fu l’assassinio di Aldo Moro. I carnefici delle Brigate Rosse, ripiegando su Moro, più facile bersaglio del più odiato Andreotti, provocarono effettivamente il tramonto della prima repubblica. Con Moro la magistratura non avrebbe riempito il vuoto di potere della classe politica, perché quel vuoto di potere Moro non l’avrebbe consentito. Non ci sarebbero state l’interruzione delle tradizionali e ricorrenti amnistie e l’abolizione dell’immunità parlamentare. Nel celebre discorso del marzo 1977, nel corso del dibattito sullo scandalo Lokheed, Moro proclamò: “Non ci faremo processare nelle piazze.” Vale a dire che chi ha il consenso popolare non è superiore alle leggi: semplicemente le fa e le modifica. Può persino fare una legge retroattiva per cacciare uno dal parlamento, figuriamoci se non la può fare una per salvare un parlamentare da un processo e dalle sue conseguenze. Craxi fu il solo statista che sia adoperò per liberare Moro. Con ciò non voglio difendere l’illegalità (ci mancherebbe altro) ma semplicemente voglio dire che la legge la fanno i rappresentanti del popolo, che non sono infallibili, e il controllo sul rispetto della legge lo fanno i magistrati, che non sono infallibili e non sono nemmeno rappresentanti del popolo. Adesso ci prova Matteo Renzi a superare il retaggio della mentalità massimalista. Sarà la volta buona?
…al locale
La caccia al piccione
Caro Franco,
ti propongo la notizia alla quale si è ispirato il consigliere comunale di Orvieto Carlo Sborra, nel proporre l’apertura della caccia al piccione torraiolo. Mi rendo conto di porti un quesito pericoloso. Ma sono curioso di vedere come te la cavi.
Pier
“Il New York Times racconta quanto sta avvenendo a Bevagna, in Umbria, dove i cittadini sono autorizzati a sparare ai piccioni, rei di imbrattare la cittadina e rovinarne i monumenti. I responsabili dell’amministrazione pubblica di Bevagna, così come i cittadini, sostengono che l’invasione dei piccioni stia diventando un problema grave: gli uccelli, con i loro abbondanti escrementi, stanno seriamente danneggiando i monumenti del luogo, l’agricoltura, il turismo. Il Comune spende periodicamente cifre considerevoli per la pulizia di facciate e cornicioni, e c’è chi lancia un allarme sanitario per il possibile pericolo di malattie e infezioni. Per questo, con la complicità della popolazione, il sindaco ha autorizzato le maniere forti, dando il via ad una vera e propria caccia al piccione, con il fucile. La decisione – maturata a dire il vero in una regione ampiamente votata alla caccia – ha naturalmente scatenato l’ira di associazioni ambientaliste e animaliste”.
La questione è vecchia come il cucco e di soluzioni fantasiose più o meno strampalate ne abbiamo sentite tante. Questa del tiro al “piccione di città”, altrimenti detto torraiolo, devo dire però che ci mancava. La giustificazione poi che, come si legge sulla stampa locale, si è sentita nel Consiglio comunale della nostra città (“così facciamo divertire i cacciatori”) è forse (non si sa mai) il massimo dell’ineleganza, direi di testa e di cuore. In verità non vale la pena perderci tempo: basta leggere le sentenze del TAR dell’Emilia-Romagna. Ricorderai piuttosto che noi nella nostra prima rubrica (“A destra e a manca”) eravamo stati molto più eleganti: allo scopo avevamo suggerito all’amministrazione di riscoprire la nobile arte della falconeria, addirittura evocando il trattato scritto sull’argomento dall’imperatore Federico II di Svevia, il “De arte venandi cum avibus” (“Sull’arte di cacciare con gli uccelli”), e avevamo poi discusso i pro e i contro di diverse strategie. Mi rendo conto che esaltare oggi l’arte della falconeria, addirittura con riferimento a quel personaggio eccezionale che fu Federico II, può creare confusione in qualcuno che non distingue l’ornitologia dalla politica, essendo oggi i falchi di questa seconda specie caduti improvvisamente in disgrazia. Ma tant’è, il gioco varrebbe senz’altro la candela! Rimango convinto dell’eleganza della nostra proposta di allora. Consiglia dunque a quel tuo collega di leggerci qualche volta: chissà che non trovi anche lui soluzioni più eleganti! Allora, me la sono cavata?