di Gian Paolo Aceto
Il titolo non vuole ovviamente riferirsi agli abitanti di una qualsiasi città dalle stesse caratteristiche di Orvieto, ma all’uso più o meno cosciente che eventuali candidati amministratori fanno della dizione “città d’arte”, generalmente in campagna elettorale, per accattivarsi le simpatie di una parte dell’anima popolare, che secondo loro vive soprattutto di campanili storico-artistici.
Questa dizione finisce per sottintendere che gli abitanti della cittadina altro non possano fare che gestire il passato, che perciò è da “mettere a reddito”. E la miopia consiste proprio, da bravi marxisti di centro, nel prendere come al solito una parte per il tutto. E’ altresì sottinteso, perché ne viene di conseguenza in quanto omissione, che più che gestire pozzi o cortei storici “altro” non si sappia fare o proporre, ammesso che lo si abbia in testa, e siccome la città è “d’arte”, di ieri, e perciò nei fatti “senza arte né parte”, di oggi, “altro” sia inutile presentare come proposta.
Ammesso ma non concesso, visto che appunto “altro”non si propone.
E’ naturalmente giusto e normalissimo che il popolo di una città sia orgoglioso di ciò che hanno fatto nel corso del tempo i suoi antenati, e specialmente in Italia, patria delle cento città-capitali, ognuna con il suo specialissimo modo di avere vissuto e vivere oggi la propria storia.
Ma giocare, anzi pompare, la propria proposta amministrativa unicamente su un aspetto del ruolo e delle possibilità di sviluppo di una città significa non soltanto prendere una parte per il tutto, ma accentuarne l’aspetto più retrivo e da bar dello sport. Vale a dire, “siamo una città d’arte e questo è il vero (e quasi unico) ruolo che ci compete e dobbiamo promuovere!”.
Più o meno lo stesso discorso vale per gli altri due feticci, cultura e enogastronomia, il tutto condito con la salsa giornalistica delle “eccellenze”.
Il popolo non fa questi ragionamenti, non si illude, perché vive il suo presente prima di ogni altra cosa. Infatti, per semplice logica linguistica il passato e il futuro non si possono vivere, non è il verbo adatto, mentre tutto ciò che soprattutto spetta al verbo vivere è appunto il presente.
Ed è proprio del vivere nel presente non soltanto fare ciò che si fa, ma coltivare in sé i semi per ciò che si vuole diventare e trovare le ragioni per fare meglio, come speranze, prospettive, capacità di progettazione e voglia di emergere.
Invece il messaggio che ritiene come praticamente unica cosa importante la “messa a reddito”
di ciò che in passato è stato fatto, già detto in passato, è un po’ diciamo così la bancarella con esposta in vendita la dentiera del nonno.
Oltre ai conti mai a posto, elementare Watson….
Un altro esempio di pensiero co(vi)piato è la proposta di altissima geopolitica che consiste nel promuovere l’allargamento della visuale politico-amministrativa “ben oltre” Orvieto, e perciò cercando agganci di collaborazione turistico-storico-culturale con Viterbo, Grosseto, Siena, ecc.
Trasferendo la proposta sul piano militare e indietro nel tempo, certo per qualche anno Orvieto ha occupato anche Orbetello, eserciti di Orvieto Siena Viterbo Grosseto e Vattelapesca si sono combattuti e occupati reciprocamente, e tutto era in funzione di conquiste o vantaggi territoriali su
“nemici” che erano i concorrenti più vicini territorialmente, e a nessuno di essi sarebbe venuto in mente di dichiarare guerra a Stoccolma. Era perciò una politica giocata sulle contiguità territoriali, quelle di allora.
Ma oggi, nel mondo con ampie possibilità di contatti e comunicazioni come se tutto il pianeta fosse a portata di “vista d’occhio”, e sono le contiguità di oggi, è possibile far sì che una città come Orvieto sia identificabile non tanto come situata tra Viterbo e Grosseto, ma tra Los Angeles e Tokio, basta aver le idee chiare su ciò che si vuole intraprendere come amministratori.
Arrivo perciò all’idea di città, che non è “La Città Ideale” degli umanisti o artisti del Rinascimento, spesso dipinta o descritta, ma quella città che, fatti due calcoli sulla situazione internazionale e anche tenendo presente il valore certo della città d’arte ma come valore che si integra alla vita di oggi, può riuscire a proporsi come momento unificante e originale rispetto ad altre città.
In altre parole si tratta di riuscire ad suscitare interesse, facendo leva in primo luogo ovviamente su “ciò che si è” e “ciò che si ha”, e quindi creando un amalgama con “ciò che si può avere”, che vuol dire riuscire ad “importare” persone o situazioni o realtà economiche o di ricerca di alto livello, utilizzando luoghi della città e prospettando i vantaggi di immagine che ne potrebbero derivare.
La città di Orvieto non vive oggi di “lotte di fazione”. Quest’ultima è una dizione storico romantica che può andar bene per il medioevo, oppure per l’ultimo dopoguerra. Riproporla oggi sa di nostalgico. Ma oggi sono semplicemente interessi, che trovano comodo coagularsi ancora fintamente come dei “credo” politici o ideologici all’interno dei gruppi partitici tradizionali.
Naturalmente il collante è ancora, per l’illusione dei rispettivi elettorati, l’insieme degli ideali politici di una volta. Come “idee ricevute” dal passato. Ma la sostanza dell’azione politica è basata
appunto sulla difesa ad oltranza degli interessi del “gruppo”, e perciò del suo “territorio”.
E l’eventuale patto civico non sarebbe altro che la messa in scena di un tacito accordo per spartirsi la solita “ordinaria amministrazione”, senza nessuna proposta realmente innovativa, e contemporaneamente il rifiuto e il silenzio su qualsiasi proposta che non venga dal proprio tradizionale “recinto”.
Ma proprio questa è la posizione degli unici veri e autentici “senza arte né parte”!
Addormentati nella “città d’arte”.