di Fausto Cerulli
Cristo, Paolo, mi hai voluto giocare un ultimo scherzo. Tu eri morto ed io non lo sapevo: ieri sera passeggiavo nei pressi di Villa Paolina, in questa Porano dove le notizie arrivano sempre troppo tardi o troppo presto, una giornata quasi primaverile, colorata già ti tinte autunnali. Ha squillato il cellulare, ha risposto la mia compagna. Ho sentito che diceva “quando è accaduto?” E poi ha riattaccato, come succede quando le parole non servono.
Ho capito subito che si trattava di te, ti pensavamo spesso in questi ultimi giorni, sapevamo che stavi male, magari avremo potuto telefonarti, ma tu saresti stato brusco, avresti detto sto bene e avresti riattaccato. Abbiamo continuato la passeggiata, abbiamo anche raccolto alcune mele sporgenti da un ramo sulla strada: ma eravamo adesso silenziosi, e i colori della quasi primavera si erano attutiti, in una sorta di impressionismo. Tu avresti saputo dire quale pittore aveva usato quelle tinte, e avresti detto male di quel pittore, senza rancore e senza invidia, ma solo per dimostrare che, a tuo parere, nessuno aveva inventato nulla. Tu eri fatto così, prenderti o lasciarti: un gioco continuo tra cinismo ed ironia, un gioco che finiva in un sorriso tremendamente dolce.
Ci siamo frequentati ad anni alterni, un tempo venivo spesso nella tua bottega di artigiano artista, e passavamo le ore in silenzio. Tu impegnato tra tornio e forno, io che ti guardavo senza capire, ed anche senza voglia di capire. Ogni tanto mi davi da sfogliare una rivista d’arte, io fingevo di sfogliarla, poi mi perdevo con lo sguardo in una piccola vasca, forse con qualche piccolo pesce, non ricordo e non importa ricordare una strana amicizia, la nostra, mastro Paolo, non me ne perdonavi una, mi rimproveravi la mia apatia, poi mi dicevi che mi divertivo a sembrare privo di interessi, e per non perder tempo mi rimproveravi quello che appariva il mio impegno politico, e prima mi deridevi, poi mi sorridevi, poi mi dicevi che a me della politica non importava nulla. Con un altro mi sarei magari anche incazzato, avrei rivendicatoli mio comunismo. Con te non lo facevo, tu ferivi con mano leggera e dunque non ferivi. Una volta, ricordo, mi facesti vedere alcuni quadri che avevi dipinto, mi chiedesti un parere, ti chiesi cosa volessi dire, con quel dipingere nuvole ed ali di uccelli, in un cielo senza cornice. Mi rispondesti male, quella volta, mi dicesti che ero rimasto alla pittura comunista, e che avrei voluto vedere sulle tele solo compagni operai, e ciminiere. Passato il primo momento di nervosismo, ci mettemmo a parlare di storia dell’arte, e mi fosti maestro, ma senza supponenza. Ricordo che quei quadri li esponesti in qualche angolo di Roma, e tifammo per te.
Credo che la pittura sia stato il tuo sogno nascosto, eri stufo di quelle ceramiche che tu soltanto avevi saputo inventare, e che avevano segnato una svolta nella ceramica non solo orvietana. Ma guai a farti un complimento, non ne volevi perché non ne avevi bisogno. Eri profondamente buono, dietro quella maschera di artista maledetto. Una sera, una delle tante sere in cui non avevo alloggio in questo mondo, e mi rifugiavo nel vino, ti capitai improvviso in bottega. Mi portasti a casa di tua madre, mi facesti stendere su un letto, mi facesti bere molta acqua, con qualche aspirina. Poi mi sussurrasti sei uno stronzo, e mi lasciasti dormire. La mattina seguente mi sveglia prestissimo, uscii in silenzio dalla casa. Ci incontrammo per il Corso, mi salutasti come nulla fosse successo, ed io mi guardai bene dal ringraziarti: non lo avresti accettato, magari avresti detto qualche battuta, tipo hai l’aria strana, stamattina, i soliti bagordi…. Prenderti o lasciarti.
Poi succedeva che per qualche tempo, e senza motivo, diventassimo due estranei. Mi guardavi senza salutarmi, o mi salutavi senza guardarmi. Oppure non ci salutavamo neppure: ma era, il nostro modo paradossale di essere amici. Mi passavi accanto con la tua auto, fingevi di volermi investire, poi abbassavi il finestrino e mi dicevi qualche frase che non comprendevo. Ma comprendevo il tuo sguardo, il tuo sorriso ironico, la tua voglia di dire e di non dire. Non eri un tipo mondano, in questo eravamo simili, ma io non ero mondano per timidezza, tu per dimostrare a te stesso che non avevi bisogno degli altri, anche se questa era la più grossa bugia che tu potessi dirti.
Ho ritrovato una vecchia foto in cui siamo insieme. Alla Galleria Montanucci, per qualche esposizione. Io, stranamente, quasi elegante, tu con quei giro collo che ti piacevano tanto. Ma quello che colpisce, in quella foto, è la mia aria meravigliata di chi assiste a qualche prodigio artistico, contrapposta alla tua aria disincantata. Se in quella foto tu parlassi, Mastro Paolo, penso che diresti Fausto andiamo via¸ che ci stiamo a fare qui. Ora tu sei veramente andato via, magico nel tuo silenzio. Ed io mi sento ancora più spaesato.
Cristo, Paolo, so che in questo momento, da qualche posto o da nessuno, mi stai prendendo in giro, dolcemente, perché sono veramente commosso. E allora ti dico che quelle mele di ieri sera, quasi rubate, le abbiamo mangiate quasi con rabbia, come se avessero a che fare con la tua morte. Spero ti piaccia, come conclusione sdrammatizzante. Ciao, Paolo, amico teneramente difficile.