di Pier Luigi Leoni
Stralcio alcuni periodi da un celebre articolo di Piero Calamandrei del 1948. Mi limito a sostituire “parlamento” con “consiglio comunale”.
«Per far funzionare un consiglio comunale bisogna essere in due, una maggioranza e una opposizione. Ma non nel senso gastronomico di chi suole dire che “per mangiare un tacchino bisogna essere in due: io e il tacchino”. La maggioranza, affinché il consiglio comunale funzioni a dovere, bisogna che sia una libera intesa di uomini pensanti, tenuti insieme da ragionate convinzioni, non solo tolleranti, ma desiderosi della discussione e pronti a rifare alla fine di ogni giorno il loro esame di coscienza, per verificare se le ragioni sulle quali fino a ieri si son trovati d’accordo continuino a resistere di fronte alle confutazioni degli oppositori. Se la maggioranza si crede infallibile solo perché ha per sé l’argomento schiacciante del numero e pensa che basti l’aritmetica a darle il diritto di seppellire l’opposizione sotto la pietra tombale del voto, si avvia a diventare una pia congregazione. Il regime democratico non è quello dove la maggioranza ha sempre ragione, ma quello dove sempre hanno diritto di essere discusse le ragioni della minoranza.
Ma anche l’opposizione, se si vuole che il consiglio funzioni, non deve mai perdere la fede nella utilità delle discussioni e nella possibilità che hanno gli uomini, anche uno contro cento, di persuadersi tra loro col ragionamento (che è qualcosa di diverso dalle vociferazioni e dalle invettive). Anche se ridotta a un esiguo drappello di pochi isolati, l’opposizione deve esser convinta di poter prima o poi, colla ostinata fede nella bontà delle proprie ragioni, disgregar la maggioranza e trascinarla con sé; e deve guardarsi dal complesso di inferiorità consistente nel credere che restar fuori dalla giunta voglia dire esser fuori dal consiglio o ai margini di esso, quasi in esilio o in penitenza.
In realtà, se la opposizione intende l’importanza istituzionale della sua funzione, essa deve sentirsi sempre il centro vivo del consiglio, la sua forza propulsiva e rinnovatrice, lo stimolo che dà senso di responsabilità e dignità politica alla maggioranza che governa.»
Chi assiste alle sedute del consiglio comunale di Orvieto può rendersi conto di quanto poco si faccia tesoro delle raccomandazioni di Calamandrei. Predominano le recriminazioni ossessivamente ripetute, la mania della visibilità senza profondità di contenuti, la saccenza, la tuttologia, la carenza di senso del ridicolo. Il tutto favorito dalla ripresa televisiva integrale e dalla sua ripetuta diffusione ad ogni ora del giorno e della notte.
Mi si potrebbe obiettare:«Se la pensi così, tu che ci stai a fare?»
E io risponderei che non sono poi tanto diverso dagli altri. Ma con un’attenuante: fui il quinto dei non eletti nella mia lista. Vale a dire che me la cavai abbastanza bene (citando ancora Calamandrei) in «quell’infido congegno di selezione a rovescio che è il giuoco delle preferenze: in grazia del quale, in ciascuna lista, vengono a galla i più intriganti a scapito dei più meritevoli, che sono sempre i più discreti e i meno disposti all’intrigo.»