Dal globale ….
Verso una decrescita infelice
Caro Pier,
non meravigliarti se ti propongo di commentare questo editoriale di Angelo Panebianco comparso sul Corriere della sera lo scorso 15 settembre, che ad un primo sguardo può apparirci lontano da ciò che qui ci può davvero interessare. Il fatto è che ogni volta di più, proprio anche per le esperienze che facciamo nella nostra città, mi rendo conto che gli orientamenti culturali di fondo, ai fini di una politica sana, concreta e lungimirante, e tesa perciò al bene comune, sono molto più importanti di tante competenze specifiche, specie se presunte. In questo senso essa ci squaderna, se non tutto il sodo dei mali del Paese, almeno qualche aspetto non secondario di ordine generale. Tu che ne dici?
Franco
“La vicenda dell’Ilva è un disastro in sé e l’ennesima tappa di un processo di de- industrializzazione da tempo in atto nel Paese che sta lasciando dietro di sé macerie fumanti e povertà. La chiusura degli stabilimenti Ilva in Lombardia, conseguenza della vicenda giudiziaria di Taranto, era prevedibile. A nulla sono valsi i tentativi dei governi (si ricordi il braccio di ferro fra il governo Monti e i magistrati tarantini) di impedire il disastro. Che sarà occupazionale e non solo. …
Non si tratta di difendere il gruppo Riva. Le sue eventuali responsabilità riguardano il tribunale. Si tratta di capire come e perché sia possibile affondare un comparto industriale vitale per la collettività, con effetti a catena su tanti altri comparti, come e perché sia possibile distruggere una cruciale fonte di ricchezza. La vicenda dell’Ilva di Taranto doveva essere gestita con buon senso. Si doveva contemperare l’esigenza della bonifica e la salvaguardia di una industria di grande importanza. A questo miravano richieste e provvedimenti dei governi. Non è stato così. …
Due sono gli aspetti di questa vicenda che, anche al di là del caso Ilva, fanno temere che il declino economico del Paese sia inarrestabile. Il primo riguarda l’esondazione del diritto penale. Il diritto penale è, fra tutte le forme del diritto, la più primitiva e barbarica: precede storicamente le forme più sofisticate (il diritto civile, amministrativo ecc.) che la civiltà ha via via inventato. Per questo, dovrebbe, idealmente, essere attivato solo in casi estremi, dovrebbe avere un ruolo circoscritto. Ma quando il diritto penale (come nel caso dell’Ilva e come avviene ogni giorno in ogni aspetto della vita del Paese) diventa il mezzo dominante di regolazione dei rapporti sociali, allora ciò che chiamiamo civiltà moderna è a rischio estinzione.
Il secondo aspetto riguarda la diffusione di una particolare sindrome, un orientamento anti-industriale, travestito da ecologismo, che punta alla decrescita, alla de-industrializzazione, perché tratta l’industria in quanto tale come una minaccia per l’ambiente. Da utile mezzo per contrastare le esternalità negative (i costi collettivi prodotti dall’inquinamento) l’ecologismo è diventato un’arma ideologica al servizio della mobilitazione anti-industriale (si veda il bel saggio di Carlo Stagnaro sull’ultimo numero della rivista Limes ). Se non fossero stati sostenuti da questa diffusa sindrome anti-industriale, i magistrati di Taranto avrebbero forse attivato, come chiedeva il governo, percorsi dagli esiti meno distruttivi per l’industria italiana”.
Constato ancora una volta che l’uomo mina con la propria malvagità tutto ciò che edifica. L’ILVA di Taranto, fondamentale per l’industria italiana e quindi per lo sviluppo sociale e civile del Paese, oltre a essere inquinante, è inquinata dall’egoismo dei proprietari e da quello degli speculatori pubblici e privati che l’hanno circondata con insediamenti abitativi. Adesso la soluzione, come tutte le soluzioni di questo mondo, dovrebbe essere di compromesso. Ma la strada del compromesso è sbarrata dal vuoto del potere politico-amministrativo riempito dal potere giudiziario. Non si tratta solo dell’invadenza del giudice penale, come brillantemente mette in luce il prof. Panebianco, ma anche del giudice civile e amministrativo. La pubblica amministrazione, invece di essere riformata e ammodernata, è stata castrata dalla gelosia della classe politica, ma i frutti li ha raccolti l’ordine giudiziario; la debolezza della politica democratica è diventata forza politica di un settore pubblico che non dovrebbe occuparsi di politica. Sia nelle contese pubbliche che private, quando il buon senso non basta, sono indispensabili meccanismi regolatori; ma quello giudiziario dovrebbe essere di estrema istanza, perché non può che essere molto ritualizzato e quindi complicato e costoso. Si tenta di fare marcia indietro con la depenalizzazione dei reati minori e con l’obbligo dell’arbitrato preventivo; ma l’ordine giudiziario e gli avvocati che ci campano oppongono strenua resistenza. Peraltro l’invadenza del diritto penale è favorita dai costi e dall’inefficienza della giustizia civile e amministrativa, dato che chi sporge denuncia alla magistratura penale non spende nemmeno per la marca da bollo; e le indagini sono tutte a carico dello Stato. Un bel guazzabuglio nel quale gli avvocati sono una marea in espansione; la magistratura penale si è assunta un potere che non le spetta poiché, non potendo perseguire tutti i reati, sceglie a suo arbitrio; la polizia, poiché sono infiniti i fatti che costituiscono reato, è costretta a chiudere un occhio e lo riapre ogni tanto senza essere tenuta a spiegare il perché. Viviamo nell’incertezza del presente e del futuro e non si vede la luce in fondo al tunnel. Non conosco la soluzione; e quella che mi viene in mente mi fa paura. Per mia fortuna, credo nella divina Provvidenza.
… al locale
Il sistema educativo e le competenze per la vita
Caro Franco,
questa settimana di propongo alcuni stralci di un servizio sull’attività del Clan del Gruppo Scout Orvieto I in Kosovo. Te la senti di ricavarne qualche utile consiglio per la programmazione delle cosiddette gite scolastiche d’istruzione? L’odore della povertà direttamente annusato può essere un buon integratore dell’istruzione libresca, compresa quella multimediale?
Pier
“Il volo per Tirana, con una compagnia sconosciuta ed un aereo ad eliche, ha fatto più di un’ora di ritardo, così siamo arrivati a mezzanotte. Ci aspettavano ancora più di due ore di viaggio, attraverso le strade albanesi, per raggiungere il confine con il Kosovo, dove gli ufficiali di frontiera hanno fatto un po’ di storie per i ragazzi del clan ancora minorenni, superato felicemente quest’intoppo, infine, un’altra ora per arrivare al Campo Caritas di Radulloc. Ancora una volta il Clan Orvieto I era arrivato sano, salvo e stremato a destinazione! Dopo una meritata mattina di riposo, siamo stati accolti dai responsabili della struttura: Massimo Mazzali, che ci ha spiegato il progetto e le regole del Campo e ha iniziato a parlarci della storia del Kosovo, un racconto poi approfondito nei giorni successivi, e Cristina Giovanelli, indaffaratissima tra i bambini da vestire e l’organizzazione dei lavori giornalieri.
Il Campo Caritas in Kosovo è un’esperienza nata ben quattordici anni fa, dopo la terribile guerra serbo-kosovara. I primi volontari giunsero sul posto appena finito il conflitto insieme alle truppe NATO. Fu subito organizzato un intervento di prima assistenza alla popolazione e ai profughi di guerra. Il progetto con il tempo si è evoluto, anche grazie alla concessione temporanea da parte di una famiglia kosovara di una struttura, adibita a centro di accoglienza per ragazzi provenienti da situazioni disagiate. La casa ora svolge vari tipi di attività: continua ad accogliere bambini e persone in difficoltà, collabora con altri Centri Caritas umbri e nazionali, aiuta mensilmente più di cento famiglie attraverso pacchi viveri, vestiario, materiale scolastico, medicinali e durante tutto l’anno ospita ragazzi e gruppi di volontari che vogliono dare una mano, come nel nostro caso.
Dopo un abbondante pranzo insieme a tutti i ragazzi e i volontari, il nostro Clan è stato diviso nei vari gruppi di lavoro. Così è iniziata la parte più dura, ma anche la più gratificante del nostro campo di servizio. C’era chi doveva occuparsi della cucina, chi delle pulizie, chi, invece, andava a lavorare o nel cantiere di Leskoc, dove nascerà il futuro campo Caritas, oppure andare a fare il giro delle famiglie povere per portare viveri e generi di prima necessità. Insomma veramente un gran da fare. Ma tutto ciò non bastava, perché ovviamente oltre ai lavori manuali, si aggiungeva tutta l’ordinaria vita di comunità. Quindi lodi, vespri, attività di gruppo come riflessioni e preghiera e infine l’attesissima animazione serale. Quest’ultima vedeva coinvolti sia i ragazzi volontari, sia i bambini kosovari della Casa, che molto spesso si esibivano in balli tradizionali e non solo, portando sempre buon umore e allegria nella comunità. La giornata tipo inizia alle sei meno un quarto per preparare le colazioni e finisce alle dieci e mezza circa con la buonanotte.
I nostri dieci giorni nel Campo sono volati, fra partenze e nuovi arrivi di gruppi da tutta l’Italia; i ritmi erano serrati, e alla fine della giornata si poteva certamente dire di sentirsi stanchi ma soddisfatti. Nonostante la grande quantità di lavoro che svolge giornalmente, Massimo ha fatto sì che tutti noi potessimo toccare più da vicino la realtà del Kosovo, anche tramite delle uscite che ci hanno permesso di visitare i posti più significativi di quella strana e complicata realtà. È così che abbiamo potuto ammirare la bellezza delle montagne kosovare ma anche i luoghi della guerra, come la casa del massacro della famiglia di Adem Jashari, oppure visitare vari enclavi serbi come il monastero ortodosso di Dečani oppure la città di Mitrovicè. Questa è ancora separata in due, un po’ come la vecchia Berlino, da una parte del fiume vivono i serbi e dall’altra la popolazione di etnia albanese ed è forse il luogo dove si respira in misura maggiore l’aria di conflitto e di tensione che, nonostante la fine della guerra, non è ancora stata superata.
Ripartire da quel posto non è stato facile, non solo per i momenti trascorsi, incredibilmente intensi e coinvolgenti, ma anche per la difficoltà di tornare alla vita di tutti i giorni, consapevoli del fatto che a poca distanza dal nostro mondo ne esiste uno totalmente diverso e sicuramente molto più complicato. Il tempo speso lavorando, faticando, riflettendo sui temi e gli argomenti che ci sono stati proposti o semplicemente giocando con i ragazzi del Campo, hanno permesso che ognuno di noi tornasse a casa con un pezzetto di Kosovo dentro, con tanta voglia di donarsi agli altri e forse anche un po’ cambiato”.
Sì, certo, posso trarre da questo racconto alcuni spunti di riflessione, mentre mi risulta più difficile fornire indicazioni per concrete attività educative, in particolare per viaggi di istruzione. In premessa direi che tutte le esperienze dirette aggiungono alle conoscenze teoriche comunque acquisite quel sapore di verità che solo il contatto con la realtà porta con sé. Nella mia non breve funzione di preside e di dirigente scolastico ho promosso perciò numerosi viaggi di istruzione proprio in funzione di un contatto con la realtà la cui conoscenza veniva anticipata con lezioni specifiche. E si trattava spesso di realtà in cui pulsava la storia presente o in cui le diversità socio-culturali erano marcate o in cui la storia aveva lasciato segni forti con eredità significative e potenziali ammaestramenti per il futuro: ad esempio Praga appena dopo la “rivoluzione di velluto”, Berlino in un tempo non lontano dall’unificazione, la Tunisia che al tempo di Ben Alì si affacciava alla modernizzazione, Cracovia e Varsavia al tempo di Giovanni Paolo II, ecc. ecc.
Spingersi fino ad esperienze forti come quelle descritte nel pezzo che mi hai proposto? Questa è oggettivamente altra cosa. Sul piano privato si tratta di esperienze auspicabili e possibili. Non invece sul piano scolastico pubblico. E non certo in termini di validità. Infatti, mentre in linea puramente teorica resterebbero valide, anzi, accrescerebbero la loro validità, tutte le conoscenze acquisite a scuola, in linea di fatto ne risulterebbero esaltate soprattutto quelle che nel linguaggio internazionale si chiamano “life skills” e che l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) definisce così: “abilità/capacità che ci permettono di acquisire un comportamento versatile e positivo, grazie al quale possiamo affrontare efficacemente le richieste e le sfide della vita quotidiana”. È del tutto evidente non semplicemente la loro utilità, ma la loro essenzialità per conquistare una dimensione di vita sana ed equilibrata.
Ma proprio qui casca l’asino: 1. a scuola è esattamente di questo che raramente ci si preoccupa; 2. una normativa rigida e cieca di fatto espone chi dovesse incappare in incidenti di studenti minorenni a ritorsioni molto probabili da parte dei genitori e comunque a quasi sicuro pubblico ludibrio; 3. ne deriva un combinato disposto per cui oggi, più che il coraggio di educare, prevale la tendenza a sfangarla, e figurarsi allora se ci si assume la responsabilità di strutturare strategie che possono comportare qualche rischio. Conseguenza: di progetti dal significato forte per l’educazione alla vita non se ne parla proprio. Meglio tirare a campare! Evviva!
La foto di Piero Piscini si titola:
Le pecore stanno sempre sotto lo sguardo attento del padrone e dei suoi cani