Le parole del nostro discorso
amoroso avevano un loro percorso
ambiguo da seguire. Sostavano
negli anfratti misteriosi del nostro
essere consapevoli della fine,
di quando sarebbero diventate
simili al silenzio che prima aveva
segnato le nostre vite divise.
Avevano paura- forse- del loro
senso, quelle nostre parole,
e noi le volevamo tranquille,
magicamente, di baci.
Ma il nostro amore studiava
meticoloso il proprio suicidio,
così simile ad una strage
privata.
del vino che scorreva, scuro
di tufo, sangue forse di Etruschi
superstiti nelle superstizioni
così vere da essere tra noi
storia. Rico era già allora
silenzioso, Marco si specchiava
quasi devoto in quel silenzio.
Le tragedie, allora, erano molto
lontane .Io bevvi molto, bevvi
per bere. All’alba mi risvegliai
nella fresca tomba di un fosso,
ricoperto dai baci della brina.
Molto di me, in questo autunno
precoce, che non sa far cadere dai rami
le foglie. Molto di te in questo tramonto
feroce .Molto di noi in questo poi che
fu un prima. Somiglia, questa mia
vita banale, ad una casa disabitata,
adatta a fantasmi fugaci.
Le donne hanno passi felpati,
mi passano accanto, mi sfuggono,
lasciano profumi straniti.
Le donne che amo sono come
le foglie, che restano
morte sui rami in attesa
del vento.
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Sapevo cogliere i momenti
giusti del tuo respiro, quando
diventava sospiro, quando
si faceva gemito amoroso,
e nei tuoi occhi leggevo
i tuoi pensieri. Credevo
fosse amore, amore vero,
speravo che fosse amore
immortale. Poi ho sentito
la tua voce spezzarsi
come pane troppo secco,
ho capito che qualcosa
stava morendo: ed eravamo
noi, persi in qualche
passato.
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In questa sera, orrenda e pudica
sera di Bolsena, il lago lava
l’anima mia, guardo la spuma
sulla riva, il tuo grembo
affacciato alla voglia, e già
le onde, che si accavallano
lente, hanno sapore di allora.
Le barche, antiche come i miei
pensieri, forse portano
morti alla deriva. Sembra
che tutto sia finito, i miei
morti mi hanno salutato
per sempre: ora mi resta il lago,
a far memoria. E mi invischio
nelle alghe assai vive, resto
impigliato nelle reti.
Il lago mi trascina, sa tutto
di me. Quella ragazza tedesca,
seno nudo e piattezza del ventre,
mi sorride impudica
nella sera angosciosa di Bolsena.
E non ho tempo, mio Dio,
e non ho voglia di avere pietà
di me per me.
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Diciamo che da qualche tempo
le giornate sono diventate
ferocemente più lunghe,
e tarda il sole a lasciare
le rive del lago. Diciamo
che io mi sono diventato
noioso, a ripetermi sempre
lo stesso amore senza
speranza. E mettiamo,
nel conto della nostra
vita, il fatto mostruosamente
dolce che le ore da contare
non coincidono con quelle
da cantare E che è sempre
più difficile sorridere, non fosse
per quel bambino che sa
veramente sorridere
nel senza senso dell’essere
unico.
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La sua voce mi giunge improvvisa,
come una carezza rubata. La guardo
negli occhi che guardano dentro
di me, per non farmi mentire.
Poi percorre la strada, danzando
di passi senza ritorno. Un giorno
forse potrò accarezzare il suo seno
minuto. Ora ho fretta di andare,
di andare, di andare nel pieno
del non so dove. Lei, maliziosa,
ha lasciato un profumo di zenzero
misto a lavanda. Le donne che amo
si lasciano dietro una scia
di non so cosa, che inebria.
Ho poco tempo per essere
amato da tutte.
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Percorrevo con te una assolata
striscia di felicità, e mi giungeva
l’eco di un lamento inatteso,
e sapevo che oltre quel punto
non esiste ritorno, ma non tu
avevi il coraggio necessario
a dirmi altra via, e dai campi
l’odore del fieno e dal tuo
fragile corpo l’aroma acre
di un amore che barcollava
come il giovane ebbro
nella taverna della mia vita,
quando tu fosti nuda.
Percorrevo verso di te
la desolata strada delle
periferie umane, dove
le libagioni, dove la festa
di qualche Dio immortale
immorale. Percorrevo
contro di te ogni strada
impossibile.