di Mario Tiberi
Negli anni del “Miracolo Economico” si formò all’interno della nostra comunità nazionale, “uti incantamento et sponte sua”, un inusitato ed inatteso ordine societario costituito da nuovi benestanti e, cioè, da una generazione che aveva chi più chi meno studiato, che si costruiva una famiglia, che si comprava l’abitazione dove viveva ed anche, potendoselo permettere, una seconda automobile, che andava a desinare al ristorante e in estate partiva per lunghe vacanze al mare o in montagna.
La progressiva omologazione degli stili di vita, di consumo e di risparmio trasformò questa massa indistinta ed indefinita in un blocco pubblico unitario, se non unico: il cosiddetto Ceto Medio il quale, passo dopo passo, divenne il cuscinetto sociale, economico e politico di una intera Nazione assurgendo a simbolo di un diffuso benessere ora conquistato e mai conosciuto prima.
Ora, codesta classe intermedia sembra aver imboccato, a capo chino, il viale del tramonto: è invecchiata, forse più impaurita e smarrita che impoverita, con il portafoglio che comunque si è man a mano assottigliato perché schiacciato dal peso delle tasse, delle bollette e dell’elevato costo della vita in generale.
Ma ciò che rende davvero drammatico il quadro complessivo è la mancanza di prospettiva, il crollo delle aspettative e, alla fin fine, della speranza di poter intravedere in fondo al tunnel la pur agognata e provvidenziale luce della risorgenza. Tutt’altro rispetto all’ottimismo che dovrebbe, invece, essere il sale e il profumo della nostra esistenza!.
Se, oggi, un qualsiasi impiegato, o un bancario, o un commerciante, o un artigiano dovesse incrociare per strada un redivivo Tonino Guerra e lo dovesse risentir pronunciare lo slogan reso famoso da un indovinato spot pubblicitario, come minimo si farebbe un’amara risata e ne chiederebbe l’immediato ritorno nell’alto dei cieli. Stesso dicasi della volontà dell’ottimismo di gramsciana memoria od, anche, del suo converso rappresentato dal realistico ottimismo delle salutari e pure volontà. Bando, però, alle facezie.
Chiediamoci, piuttosto, quale sia stata la qualificazione principe del ceto medio. Storicamente, con tale espressione si è soliti andare a riferirsi ai colletti bianchi, ai quadri dirigenti e intermedi, agli impiegati di concetto e d’ordine, ai prestatori d’opera qualificata, ai professionisti, ai lavoratori autonomi dell’agricoltura come del commercio e dell’artigianato. Fu quel ceto medio che, a cavallo tra gli anni cinquanta e ottanta, rappresentò un enorme serbatoio di voti per il partito-guida della prima Repubblica.
Al giorno d’oggi, e sempre che ancora esista, lo si può inquadrare in un agglomerato di genti dai confini incerti e formato da elettori di destra e di sinistra, da cittadini del Sud più poveri ma meno angosciati perché rassegnati, da abitanti del Nord più ricchi ma meno sereni perché preoccupati, da moltitudini di provincia che sbarcano il lunario arrangiandosi come possono con o senza eccessivi patemi, da metropolitani strozzati da uno stile di vita al quale non rinunciano anche a costo di intaccare antichi risparmi.
Il treno borghese di un tempo ha indubbiamente perso molte comode carrozze lungo la strada ferrata e, ancor peggio, non è riuscito ad attuare il necessario ricambio generazionale. Scrive il professore di sociologia Alessandro Schizzerotto: “Le classi medie soffrono in tutta Europa, ma quella italiana presenta una sua preoccupante specificità. Si registra un accentuato calo numerico nella composizione della classe media perché i suoi figli, che si affacciano nel mondo del lavoro, non riescono a trovare i posti che, alla stessa età, i loro padri avevano già raggiunto. Hanno un livello di istruzione medio-alto, ma finiscono nei “call center” o in quel sottobosco che è il proletariato dei servizi”.
Siamo così giunti al cuore della questione. I redditi diminuiscono e gli stili di vita restano immutati; la propensione al risparmio è in caduta libera e da popolo di formiche ci siamo trasformati in popolo di cicale. Vi è un’immagine emblematica e più eloquente di tutte le altre: al Banco Alimentare, ovvero l’associazione che raccoglie le eccedenze delle aziende agro-alimentari e le distribuisce a chi ne ha bisogno, pervengono richieste in continuo aumento; coloro che intendono usufruirne vengono contattati a mezzo di cellulare e, per ritirare il pacco delle cibarie, si presentano tutti con la propria autovettura privata. Non hanno da mangiare, però possiedono il telefonino e l’automobile.
E’ ovvio che di questo passo il ceto medio, fra qualche anno, sarà soltanto un residuato da “belle epoque”, se non proprio un modello preistorico o un concetto del tutto superato.
In uno degli ultimi rapporti del Censis, si trova riportato che il ceto medio non rappresenta più una condizione trasversale ed unificante, di aggregazione e coesione sociale; ha più senso e significato definirlo come un “quidquid” di medianità interclassista, inteso come fosse collocato in posizione mediana all’interno di una società sgretolata in cui ognuno marcia per conto proprio e agisce per meri fini egoistici. E, prosegue, sottolineando di ritenere improbabile una coalizione elettorale di quel che resta del ceto medio in vista delle più o meno prossime scadenze di voto poiché, pur toccando i tasti della difesa del risparmio e della tutela del lavoro, per nessuno sarà agevole la conquista del suo consenso, men che meno o men che mai da parte dei mestieranti della politica. Per l’opposto, governare un popolo privo del suo architrave si rivelerà impresa titanica, se non impossibile, qualora non si abbiano una indiscussa e credibile leadership, visioni politiche limpide, capacità di rischiare, coraggio nell’isolare le “mele marce” toccate dalla questione morale.
E’ triste doverlo affermare, ma nell’oggi il ceto medio rassomiglia sempre meno ad una corazzata inaffondabile e sempre più ad un treno fantasma.