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Un milione di poteri non valgono una verità

Redazione by Redazione
12 Agosto 2013
in Corsivi, Archivio notizie
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di Mario Tiberi

Voglia di verità: così in sintesi il mio amico Massimo Maggi in un incisivo Suo scritto dal titolo “Parresìa: la dimensione etica e il coraggio della verità”. A tal proposito, non mi stancherò mai di rammentare che, in un’epoca dominata dagli inganni e dalle menzogne, professare e praticare anche una sola verità è di per se stesso un atto rivoluzionario.  A Lui, quindi, e a tutti coloro non disposti ad abbassare la testa e ad inchinarsi di fronte ai “tronfioni “ e agli “ingordi di potere”, intendo dedicare le righe qui sotto riportate.

Alcuni giorni orsono, mi sono domandato se il potere può coniugarsi con l’equità; oggi mi rivolgo la medesima domanda, ponendola sul versante della verità.

Si proceda con ordine, andando innanzitutto ad analizzare, seppur succintamente, il significato storico-filosofico della “Potestà d’imperio”.

Il concetto di potere, sia esso verbo o sostantivo, nel corso dei secoli e a seconda delle epoche ha subito profonde trasformazioni oscillando, a guisa di pendolo, da una sponda all’altra del suo significato più proprio ed etimologicamente corretto.

“Possum”, nel mondo latino, stava a rappresentare l’esplicazione della funzione di governo e di comando attraverso l’esercizio della “Auctoritas” che, a sua volta, racchiudeva in sé il riconoscimento unanime delle potestà pubbliche e ordinamentali assegnate alle Magistrature costituzionali nel segno della severità e della autorevolezza.

Mi consentirà Pier Luigi Leoni se riporto, qui di seguito, un brano tratto dalla sua “Lectio Magistralis” tenuta in occasione di un evento rievocativo a me molto prossimo: “Fu Costantino il Grande, fondatore dell’impero cristiano, che istituì la classe politica dirigente come “militia”, distinta da quella combattente. L’elite politica dell’impero cristiano (parallela a quella militare nella terminologia, ma superiore nel rango) dovette indossare il “cingulum militiae”, vale a dire il cinturone, che conferiva la “Dignitas”, lo “Honor” e la “Potestas”. Agli appartenenti a questa elite spettava il titolo di “Illustris”, cioè luminoso e che irradia la luce della propria autorità. E’ da precisare che, nella primigenia concezione cristiana del potere, Autorità equivaleva a Servizio.

Servizio a Dio per mezzo della fedeltà al “princeps”, la cui autorità aveva origine divina. Nella moderna concezione del potere, a seguito del superamento delle monarchie assolute e l’avvento delle libere democrazie,  l’autorità è al servizio del popolo, con il popolo e per il popolo. In tale ottica, il senso della storia, e quindi anche della politica, è stabilito dalla Maestà di Dio con il concorso delle volontà umane che si rivelano nella natura, nel tempo, nello spazio e nella coscienza di ogni essere umano”.

Congiure di palazzo, atti di sabotaggio, giochi al massacro per deliri di potere sono vecchi quanto la storia dell’umanità, nonostante i sani principi appena descritti. Il correttivo e la compensazione a tali devianze lo si è sempre trovato in figure di alto profilo esemplare che della probità, dello spirito di servizio disinteressato, della nobiltà d’animo hanno plasmato tutta la loro esistenza elevandoli a permanenti valori e ideali di vita.

Di fronte a siffatti personaggi, molti degli attuali detentori del potere dovrebbero coprirsi la faccia di vergogna per la loro meschinità e ridicolaggine, avendo scambiato l’autorità con la sopraffazione, il ricatto, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il mercimonio dei corpi e delle coscienze.

La causa che genera il malcostume dilagante va ricercata, e me ne convinco sempre di più, nel rifiuto pregiudiziale della ricerca della Verità. Perché la verità punge e scatena dolori e sofferenze,  non copre più le malefatte e gli inganni, porta alla luce misfatti inconfessabili, sbatte contro il muro delle proprie responsabilità gli incoscienti e i superficiali, chiede il conto secondo giustizia.

Certo, il perseguimento della verità non è impresa agevole dato che, nel concreto dei nostri limiti umani, essa può assumere poliedriche sfaccettature e distinzioni. Si può, ad esempio, dissertare su una verità mediatica e tutti sappiamo come troppo spesso i mezzi d’informazione sono elargitori di falsità e di notizie inattendibili; su una verità giudiziaria e non è raro il caso di clamorosi errori dei collegi giudicanti per cui, non sempre, la legge è uguale per tutti; su una verità politica e qui, per davvero, è possibile andare oltre i confini della realtà e della più fervida immaginazione.

Ma la Verità in se stessa, quella vera, può trovare ospitalità nelle dimore della mente e del cuore degli uomini? Sono convinto di sì, a patto che ad essa si accompagni un puro e genuino sentimento di Giustizia.

Roberto Saviano ha recentemente affermato che la verità non coincide mai con il potere: mi trovo solo parzialmente in sintonia con tale secca denuncia in quanto, per onestà e virtù, non bisogna mai confezionare con ogni erba un fascio e perché non è giusto criminalizzare tutti per una parte marcia ed empia.

Potrebbe, a questo punto, venirci in soccorso la cultura classica, pagana ma saggia. Nell’antica Grecia erano preminenti tre entità metafisiche, oggi le potremmo chiamare moderne Monadi, che personificavano il fato o destino, Tuke, la vittoria, Nike, la giustizia, Dike. Ebbene, allorquando le vicende umane si tingevano di sangue, di vendetta, di tragedia, Tuke spingeva Nike verso Dike e Dike risaliva nell’alto del cielo per cospargersi della tinta del divino.

Ai potenti che, proprio perché tali, si credono autorizzati a prendersi beffe della Verità sia di monito che, se riusciranno a sfuggire alla giustizia terrena, non potranno farla franca con la inflessibile Giustizia Divina.

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