di Mario Tiberi
Per mercoledì ultimo scorso, in Orvieto, era stata indetta una pubblica conferenza affidata, in qualità di illustre oratore, al Professor Stefano Rodotà. Poi, per ragioni attinenti ad impossibilità sopravvenuta, detta conferenza è stata annullata e rinviata a data da stabilirsi. Il tema dell’incontro avrebbe dovuto vertere sullo “Sviluppo dell’Equità”, tema quanto mai attuale e pressante, e al quale non mi sarei certo sottratto anche se, qualora fossi stato consultato, avrei consigliato agli organizzatori la dizione di “Etica dell’Equità” poiché l’equità stessa, inconfutabilmente, è valore etico assoluto ed universale e, come tale, non soggetto a mercanteggiamenti di sorta. Avrei, dunque, partecipato attivamente tanto che, se mi fosse stato concesso, avrei preso la parola per un contributo dottrinario. Quello che avrei detto con la voce lo trascrivo, qui, con la penna e in una sintesi la più cristallina possibile.
Su cosa sia e come venga esercitato il potere, in particolare quello politico, fior fiore di studiosi e pensatori si sono pronunciati nel corso dei secoli senza, però, mai arrivare a conclusioni univoche o definitive per il solo motivo che l’arte della politica non è affatto una scienza esatta e, in quanto tale, non può aspirare a dettare regole universalmente riconosciute come inoppugnabili ed incontrovertibili.
Mi proverò anch’io a formulare una digressione sull’argomento, senza avere la presunzione di pervenire a chissà quali fantomatici traguardi strabilianti, ma con l’intenzione non celata di fornire alcuni squarci di chiarezza e concretezza.
Il potere, nella sua accezione più deteriore e brutale, è visto e vissuto come attrezzo, a guisa di grimaldello, per scardinare e imporre con la forza la propria volontà su quella altrui; per incapsulare con le armi del ricatto e della ritorsione il democratico dispiegarsi delle libertà individuali sia di pensiero che di movimento; per instaurare un ordine costituito fondato sulla sopraffazione e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo; per essere esso stesso il simbolo personificato dell’arroganza insolente e della prepotenza opprimente.
Il potere così concepito, a differenza della “Potestas Auctoritatis”o, ancor meglio, della “Auctoritas Potestatis”, legittimamente esercitata sul fondamento di leggi costituzionali, inevitabilmente si veste delle forme del sopruso e della prevaricazione. Il potere, così praticato, si connota adunque della caratteristica di esistere abusivamente come il solo ed unico fine della politica mentre, invece, ne dovrebbe essere lo strumento legale di svolgimento e di esplicazione dell’azione benefica di quest’ultima a favore di una comunità civilmente strutturata e normativamente amministrata.
Non da oggi, ma da lungo tempo ormai ed assieme ad altri saggi sodali, andiamo predicando un insegnamento decisivo e irrinunciabile per chiunque voglia cimentarsi nella vita pubblica e, cioè, che per ben governare bisogna conoscere e, cioè ancora, che per ben esercitare il potere bisogna applicarsi allo studio, svestirsi degli abiti della superbia e rendere propria la propensione disinteressata al servizio della collettività.
Francesco, il giullare di Assisi, portò a compimento la missione affidatagli dalla Divina Provvidenza nel momento in cui, ai quattro angoli del nostro pianeta, risuonò il messaggio di pace e di riconciliazione racchiuso nel proclama a seguire: “ Mi arricchirò di tutto ciò che perderò; mi arricchirò di spirito per tutto ciò che perderò di terra”.
Come non capire che è il potere di magistero, e non quello di imperio, a cui bisogna tendere?!?.
Incalza, allora, a proposito la questione nevralgica propria di codesto travagliato periodo storico: vale a dire come sia eticamente possibile coniugare l’esercizio del potere con il perseguimento della giustizia e dell’equità sociale.
Non basta, infatti, dichiararsi pronti a demolire radicati potentati economico-finanziari se, poi, a tali enunciazioni di principio non siano conseguenti atti che ne provino la tangibile volontà politica di realizzarle effettivamente: il rigore, la giusta distribuzione e ripartizione dei sacrifici, la lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, il ristabilimento della legalità, l’abbattimento dei privilegi, insomma l’equità e la giustizia senza concretezze sono e resteranno sempre delle vuote parole.
Ove non è giustizia, là non vi può essere “pace sociale” e non potrà, mai, superarsi l’avvilente spettacolo di intere categorie umane che versano in una penosa condizione di conflittualità permanente e che si trovano in uno stato di belligeranza, dichiarato o non, l’una contro l’altra; nei partiti e tra i partiti nella società, è in perenne evidenza e al centro di ogni agire una indomabile disputa per il potere, una singolar tenzone finalizzata alla conquista del potere per il potere con le nefaste conseguenze di cui il cittadino ne è incolpevole e indifesa vittima.
Mi pare di poter affermare che, anche con il nuovo Governo, molte delle ragioni dell’equità siano già state sacrificate, e di più lo saranno, sull’altare di interessi superiori di cui sono portatori i meno a discapito dei più.
Sarà mai possibile invertire una simile perversa linea di tendenza?. Sulla scia di Primo Giovannelli, l’unica alternativa praticabile va individuata nella costruzione di una nuova epoca alle cui basi sia posta la dirompente dottrina dell’equitalismo, fondata sul vincolo delle solidarietà sociali, e che, attraverso una rivoluzione bianca, porti al superamento definitivo del marxismo-leninismo, autocratico e liberticida, e del capitalismo selvaggio e neo-liberista, altrettanto autarchico e illiberale.
Sembrerà impossibile; ma l’impossibile è entità totalmente relativa poiché, quando una meta appare impossibile ad essere raggiunta, vi si rinuncia ed è proprio la rinuncia a renderla impossibile.