di Mario Tiberi
Tra le molteplici, l’unica domanda che rimane davvero in piedi, dopo la sentenza di condanna inflitta a Silvio Berlusconi, è la seguente: a quali diabolici espedienti potrà far ricorso il o lo ex Cavaliere pur di non dover abbandonare definitivamente la scena politica italiana?.
Tale domanda è del tutto pertinente poiché, al di là di ogni singola valutazione, la vera posta in gioco risiede proprio nel fatto della permanenza o meno nella vita pubblica dell’uomo, e ancor più del marchio, che hanno condizionato il mercato politico dal 1994 ad oggi.
Non è, infatti, un caso che molti esperti di settore indichino come unica strada percorribile quella di tutelare l’uomo e il suo partito, rilanciando il marchio “Berlusconi”, attraverso la candidatura della figlia Marina. È ovviamente una questione privata, familiare ma, a suo modo, anche pubblica in quanto il padre ha assoluto bisogno di restare in scena per una serie infinita di ragioni economiche, giudiziarie e politiche: insomma quello stesso “mix” che determinò vent’anni orsono la sua decisione di “scendere in campo”.
Non solo: pur anche gli esponenti di spicco del suo partito hanno assoluta necessità di mantenere accesa quell’insegna o sotto le sembianze del fondatore stesso o, almeno, sotto quelle della figlia e, ciò, per il motivo che a quel marchio sono legate la nascita e le vittorie del centrodestra seppur con un peso via via decrescente, ma comunque sempre sufficiente a consegnargli un ruolo decisivo. Senza Berlusconi, presidente e proprietario, la squadra del centrodestra non avrebbe più nemmeno la divisa per giocare!.
I suoi fedelissimi sono i primi a ben saperlo e la mobilitazione inscenata, appena dopo la sentenza, si è tinta del colore di una campagna politica per la loro stessa sopravvivenza. Quasi tutti, infatti, gli devono incondizionata riconoscenza per essere o essere stati ministri, parlamentari, presidenti di Regione, uomini e donne di potere che, qualora egli venisse meno, perderebbero inevitabilmente ogni visibilità mediatica e ogni funzione pubblica.
A tal punto, è doveroso ricordare il fatto, per la verità non molto noto alle grandi masse, che un cospicuo numero di dirigenti del PdL tentarono, agli inizi dell’anno in corso, di svincolarsi da Berlusconi per avvicinarsi a Monti, indicato quale candidato-premier dei moderati e predestinato a spedire in soffitta l’epoca ruggente del primo tra i due. Furono sufficienti, però, alcuni sondaggi per far capire ai diretti interessati che né i centristi di Monti e né i seguaci di Alfano avrebbero raccolto l’intera eredità dei voti berlusconiani.
La verità è che in Italia esiste un elettorato disposto ad elargire il suo consenso al centrodestra solo se esso è competitivo e, a torto o a ragione, lo reputa in grado di vincere le elezioni a patto che lo guidi Silvio Berlusconi.
La storia recentissima ha così offerto ai nostri occhi il suo rientro in pista: certamente invecchiato, inguaiato fino al collo con la giustizia, sbeffeggiato per l’inglorioso naufragio economico del suo governo, irriso per i “festini” di Arcore, ma capace di non farsi “smacchiare” dall’incauto Bersani.
Quanto appena scritto è e rimane un mistero per chi non lo vota e mai lo voterebbe; per i suoi adepti, al contrario, è e rimane la loro più sicura ancora di salvezza. Ora, però, la condanna dell’incontrastato leader rischia di trasformarsi nella loro stessa condanna. Senza una soluzione di ricambio, senza un valente “delfino”, si sono ridotti a riporre le loro residue speranze in una rischiosissima omonimia o in una, ad oggi impensabile, resurrezione: ma, per crederci, bisognerà chiedere ed ottenere la Grazia.
Già la Grazia: l’ultimo gesto al quale, però, non debbono neanche minimamente pensare né il Presidente della Repubblica né il PD se non vogliono perdere, insieme alla faccia, anche l’onore; viceversa, è da rimarcare l’ottimo comportamento dei “cinque stelle” i quali, con estrema e corretta coerenza, non solo chiedono che di Grazia nemmeno si parli, ma anche che “l’uomo di Arcore” decada immediatamente dalla carica di Senatore della Repubblica. Se giustizia è giustizia uguale per tutti!.