di Mario Tiberi
Prima di dare fiato alle trombe della mia penna sul tema in oggetto, mi sono soffermato a lungo sul giudizio da esprimere a proposito del verdetto giudiziario emesso nei confronti del sig. Berlusconi.
E ciò, poiché intendo propormi come giudicante onesto e imparziale e, di conseguenza, non subire condizionamenti dal fatto di essere stato un fermo avversatore politico del soprannominato fin dalla sua prima discesa nel terreno dell’arena pubblica. Procediamo, ora, con una sintetica analisi del fenomeno che, è nei miei auspici, possa destare l’interesse di chi mi legge.
Era inevitabile: nata e cresciuta tra mille polemiche, ricostruzioni, accuse, retroscena, ritrattazioni ed anche prolungate sbirciatine dal buco della serratura, la “vicenda Ruby” non poteva certo esaurirsi con la sola e pur clamorosa condanna di primo grado. Vi è infatti da rimarcare la circostanza che, in passato, un processo ad un imperatore, quale si atteggia il Cavaliere, mai si è concluso con un diffuso e generale appagamento sotto la formula della “giustizia è fatta”.
Tra condanne in primo o secondo grado, assoluzioni, prescrizioni, processi incanalati sul binario morto della depenalizzazione dei reati grazie alle ormai celebri leggi “ad personam”, a di tutto e di più sarà assai arduo potervi assistere. Il “caso Ruby”, però, possiede in sé una peculiarità che lo contraddistingue profondamente da tutti gli altri guai giudiziari che, nel tempo, hanno investito il fu Presidente del Consiglio.
Difatti, all’estero, nessuno probabilmente conosce chi sia Lavitola, o Previti, o Dell’Utri, né chi siano stati i protagonisti di altre storie processuali; pur tuttavia, dalla Terra del Fuoco fino all’Artide, tutti sanno a quale realtà si allude quando si cita una parola ripetuta due volte, dal chiaro esotismo africano, e che, appunto, è associata alla figura dell’ex premier: “Bunga-Bunga”.
Dal caso “Clinton- Lewinski” in poi, è di dominio universale la consapevolezza di quanto impopolare possa essere il corto circuito tra potere, e sesso, e giustizia, e quanto, alla fin fine, abbia maggiormente valore la condanna morale e più, ancora, l’etichetta di corruttore a fini sessuali, piuttosto che un verdetto penale o civile. Sotto codesto aspetto, si può ben dire che Silvio Berlusconi ha già pagato un prezzo reputazionale elevatissimo a fronte della divulgazione di appurate notizie sulla sua vita privata, sul sistema delle “Olgettine”, sulle sue sconcertanti frequentazioni.
E’doveroso ripeterlo: nulla di quanto suesposto ha risvolti penali non essendo, comunque, sanzionabili né i pagamenti alle “escort” e né le costose regalie elargite a tutto il “circo rosa” delle “cene eleganti”. Ma è altrettanto doveroso affermare che, in ampi strati dell’opinione pubblica italiana e di più negli ambienti internazionali, si sia associato negativamente lo stile di vita privata del Cavaliere ai suoi comportamenti pubblici e la riprova di ciò, semmai ve ne fosse di bisogno, la si può ricercare nella caduta del suo governo per mano europea, più ancora che nella famosa risatina tra la Merkel e Sarkozy.
E’ necessario pure riferire che Berlusconi sa perfettamente, da uomo abile ed astuto qual è, che non sempre un politico screditato dall’alto è automaticamente un politico bruciato dal basso: quello che, infatti, alla suddetta Merkel e ai cristiano-moderati europei sembrò intollerabile, al punto da imporre la candidatura alternativa di Monti, non era evidentemente così infamante per l’elettorato italiano di centrodestra, almeno a stare al risultato delle urne di Febbraio.
E lo stesso Berlusconi è altrettanto conscio che non sarà il “caso Ruby” ad azzopparlo politicamente in via definitiva, quanto piuttosto quello sui “diritti Mediaset” che, al termine del mese in corso, perverrà al giudizio conclusivo della Suprema Corte di Cassazione.
Resta in piedi, viceversa, una contaminante macchia nera, anche per chi non coltiva pretestuosi pregiudizi antiberlusconiani: due anni orsono alla Camera dei Deputati il centrodestra votò compatto la richiesta rivolta alla Corte Costituzionale sul conflitto di attribuzione con la Procura di Milano, sostenendo che, quando l’allora premier telefonò alla Questura, egli credeva sinceramente che Ruby fosse davvero la nipote di Mubarak. Ora, in una strategia difensiva vi si può mettere di tutto: dalla negazione di ogni “coda piccante” alle cene di Arcore fino al tentativo di spostare il processo in altra sede giudiziaria. Ma lasciare agli atti, avallati dalla maggioranza dei deputati, la fiabetta dell’inguaiata ragazza marocchina, parente del presidente egiziano, rappresenta una vera e propria “presa per i fondelli” per e in via istituzionale.
Peggio, molto peggio di una condanna!.