di Mario Tiberi
Il Dottor Pier Luigi Leoni, dall’alto della Sua elevata cultura politica e dunque da par Suo, ha avuto la bontà di intervenire a commento integrativo di un mio editoriale per meglio svilupparlo e completarlo. Il mio portava il titolo: “Si può essere bipolari senza essere bipartitici”; il Suo: “Nel bipolarismo i poli sono due, ma le culture politiche sono almeno tre”. Il riferimento al pensiero sociale cristiano, e quindi ad una politica autenticamente popolare, ne ha determinato il perno attorno a cui far ruotare il Suo prezioso contributo.
Circa due anni orsono affrontai il tema del popolarismo, distinguendolo ovviamente dal populismo, ed oggi mi sento di riproporlo almeno nei suoi tratti salienti.
Ad ognuno di noi capita di assistere, per libera scelta o per masochistico gioco, ad assemblee, conferenze, dibattiti, tribune televisive o radiofoniche, nel corso delle quali i politici di turno invitati in qualità di ospiti o di relatori espongono, spesso tirandosi chiassosamente gli orecchi l’un l’altro, le loro linee di indirizzo ideale e/o di piattaforma programmatica.
Ce ne fosse mai uno che non si proclami fautore dell’ascolto della società e dei suoi bisogni, contrario ad una gestione del potere oligarchica e clientelare, promotore di uno stile politico ispirato all’onestà e alla verità e su questi temi, dall’estrema destra all’estrema sinistra, si trovano tutti concordi solo e soltanto sul piano delle pie intenzioni verbali per poi, nelle realizzazioni concrete, ritrovarsi in disaccordo su tutto.
Pensano, spesso e volentieri fingendo, di essere dei “popolari”, mentre invece sono solo dei populisti!.
Bisognerà, allora, tentare di andare alla ricerca delle ragioni e dei princìpi del “popolarismo” per comprendere meglio il perché, nella politica urlata dei giorni nostri, sono prevalenti gli accenti di leziosa e demagogica accademia sulle volontà più squisitamente improntate alla serietà delle analisi sulle contingenze del presente e alla coerenza, rispetto a quest’ultime, di conseguenti risposte risolutive suggerite dalle analisi stesse.
Il “Documento Principe”, a tal proposito, è rappresentato dallo “Appello ai Liberi e Forti” lanciato da Luigi Sturzo, nel Gennaio del 1919, da una francescana cameretta della pensione “Santa Chiara” in Roma. Detto Documento costituisce la pietra miliare nella storia del cattolicesimo democratico italiano e contiene i caratteri fondamentali di quello che sarà poi definito “popolarismo”, una sorta di trasposizione in politica dei principi solidaristici, sussidiari ed etici contenuti nel “Pensiero Sociale Cristiano”.
Riforme sociali, partecipazione degli operai alla vita delle fabbriche, cooperative di lavoro e di consumo, istituti di credito a sostegno degli artigiani e commercianti, società di mutuo soccorso, ordini professionali, scuole per l’istruzione giovanile e popolare, prime forme di associazionismo sindacale organizzato, decentramento amministrativo, riconoscimento giuridico della piccola proprietà rurale contro il latifondismo: ecco i capisaldi del nuovo modo di pensare ed agire che contraddistinsero quegli anni intensi e fecondi.
Antonio Gramsci salutò l’imminente costituirsi dei cattolici in partito politico come il “fatto storico più importante dopo il Risorgimento”; Federico Chabod considerò la nascita del Partito Popolare Italiano come “l’avvenimento più notevole della storia italiana del ventesimo secolo”: questo per dire quanto sia stata rivoluzionaria la pubblicazione dell’Appello ai liberi e forti.
Oggi più che mai, quando pare essersi smarrita la strada maestra di una politica a beneficio di tutti, ritornano severe ed ammonitrici le parole tratte dagli insegnamenti di maestri dalla statura morale ineguagliata e, probabilmente, ineguagliabile.
Ed è triste e deprimente assistere alla misera girandola delle convenienze e delle poltrone, alla caduta in tentazione di ben individuate gerarchie ecclesiastiche che si prestano ancora ad esercitare un potere temporale in funzione di garantirsi la copertura di personaggi che di “popolarismo” non sanno picche, alla stolta e dissennata pratica di affidare la guida di partiti che si autodefiniscono “popolari” a figure di riferimento provenienti da esperienze maturate all’interno della neo-borghesia liberista e conservatrice o di quella socialdemocratica camuffata da riformista e progressista.
Un partito davvero popolare dovrebbe, invece, possedere un’unica bussola di orientamento: il perseguimento della giustizia sociale, dell’uguaglianza civile, dell’etica pubblica e privata, fulcri e perni attorno ai quali dimensionare i valori del diritto al lavoro, all’abitazione di famiglia, alla salute e all’istruzione.
La nuova frontiera del “popolarismo” può essere racchiusa nella siffatta sintesi, espressa nella lingua che è la sintesi lessicale per eccellenza: “Si vis pacem, para iustitiam et, ex verbis, ad facta iustitiae”. La pace e l’equilibrio sociale sono garantiti dalla giustizia, quella dei fatti e non delle sole parole.
I concetti su espressi ricordo che, e ritengo di non sbagliarmi, furono doviziosamente illustrati nelle pagine del “Comune Nuovo”, storica testata dei cattolici democratici orvietani, una trentina di anni orsono o poco più. Parole profetiche allora e che, ancor di più oggi, hanno necessità di essere compiutamente praticate e realizzate nella concretezza della realtà sociale, civile e politica.
E’ la Orvieto “Comune Nuovo” che vorrei, tutto l’opposto di quella che è attualmente.
Per concludere: essere o diventare “populisti” è agevole e poco impegnativo essendo bastevole, infatti, mettere sotto lucchetto animo e cuore ed evitare di rispondere alla propria coscienza mentre, al contrario, essere o diventare “popolari” è ben più arduo poiché è richiesto di anteporre il giudizio di coscienza agli interessi e tornaconti individualistici.