Caro amico, questa settimana ti scrivo …
Franco Raimondo Barbabella
Caro amico, così ti rispondo …
Pier Luigi Leoni
Dopo le Province … Si aspetta che siano altri a dettarci il futuro?
“All’inizio, spiega la Società geografica italiana, c’erano le Province, retaggio tipico di un Risorgimento che aveva rinnegato il federalismo. Lo Stato unitario era stato modellato sull’organizzazione centralistica di stampo napoleonico con 59 ripartizioni territoriali di dimensioni ottimali per poter essere attraversate in una giornata di cavallo. Poi sono arrivate le Regioni, le quali avrebbero dovuto mettere fine a quel modello avviando la stagione delle autonomie e del decentramento. Invece le Province hanno preso a lievitare come la panna montata. Alla nascita delle Regioni, nel 1970, erano 94, tre in più rispetto al 1947. Oggi sono 110. E con loro si moltiplicavano Unioni dei Comuni, Comunità montane, Comunità collinari, Circoscrizioni comunali, Circondari, Aree di sviluppo industriale, Ambiti turistici, Centri per l’impiego. Per non parlare dell’inestricabile groviglio degli enti intermedi fra Comuni, Province e Regioni: dalle aziende sanitarie locali alle migliaia di società pubbliche locali, agli ambiti territoriali ottimali, ai consorzi di bonifica, perfino alle istituzioni scolastiche. E l’autonomia si è trasformata in un delirio. Sovrapposizioni di competenze, duplicazione di funzioni, moltiplicazione di responsabilità senza che nessuno sia davvero responsabile… Un coacervo talmente complicato che nessuno è oggi nemmeno in grado di dire con esattezza quante siano in Italia le pubbliche amministrazioni: una recente ricognizione le ha stimate in un numero prossimo a 46 mila… La riforma del titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra nel 2001 ha poi contribuito a far impazzire definitivamente la maionese, decentrando poteri spesso in modo irrazionale… Non è un caso, dunque, che proprio dall’inizio del nuovo secolo la spesa pubblica abbia cominciato ad aumentare esponenzialmente: in dieci anni i bilanci regionali sono raddoppiati, senza che alla crescita delle spese in periferia abbia corrisposto una riduzione analoga delle spese dello Stato centrale. E fare marcia indietro ora si rivela complicatissimo, come dimostra la telenovela dell’abolizione delle Province. Parte da qui un’idea che la Società geografica italiana aveva già presentato all’inizio di marzo, provando a immaginare un’Italia con una articolazione territoriale completamente diversa. Senza più le 110 Province (109 al netto della valle d’Aosta, dove Provincia e Regione coincidono), né le 20 Regioni (21, considerando le Province autonome di Trento e Bolzano): al loro posto 36 dipartimenti regionali più omogenei per radici storiche e fondamentali economici…”. (Corriere della sera, redazionale del 24.07.2013)
F. Quello della Società Geografica Italiana su “Il riordino territoriale dello Stato” pubblicato nei giorni scorsi è un ponderoso studio (126 pagine) di estremo interesse per chiunque voglia ragionare con cognizione di causa sulla riforma del sistema istituzionale del nostro Paese. Si tratta di una nuova proposta di ordine generale dopo quelle del 1993 di Gianfranco Miglio e della Fondazione Agnelli, che fecero molto rumore e lasciarono semi di riflessione non solo tra gli addetti ai lavori pur non essendo mai diventate, né nelle condizioni politiche reali potevano diventare, progetto percorribile di riforma. Anche questa volta è praticamente certo che sarà così. Eppure qui ci sono spunti di non minore valore. Ad esempio la notazione che andrebbero superati i principi dell’autodichia (render conto solo a se stessi) e dell’equiordinazione (porre sullo stesso piano Stato, Regioni ed enti locali) affermando in concreto da un lato il diritto-dovere di un maggior controllo dello Stato centrale sulle spese degli enti periferici e dall’altro l’efficacia di una strategia di governo che dal centro si irradi in periferia pur garantendo libertà d’azione e responsabilità diretta dei governi locali. Ma soprattutto lo studio in questione ha il merito di rendere evidente che i problemi sul tappeto sono molti e complessi e che l’abolizione delle province non rappresenta affatto la soluzione magica che da molte parti si invoca. Ad esempio: una riforma seria dello Stato, dice in sostanza la SGI, non può non riguardare anche le Regioni. D’accordo, su questo fronte non succederà niente, ma il problema di che cosa succede nelle Regioni con l’abolizione delle province esiste, ed è serio e grande. E ci riguarda da vicino. Per comprenderlo basterebbe aver letto l’intervista che il ministro Graziano Delrio ha rilasciato al Corriere della sera lo scorso 26 maggio. In essa viene formulata l’ipotesi di “Collegi di sindaci” (di einaudiana memoria) per amministrare le materie di area vasta, ma in numero non superiore a quello delle attuali province. Traduzione per noi: stesso territorio dell’attuale provincia di Terni. Nessun cenno alla questione del superamento dei confini regionali per ottenere politiche territoriali fondate sia sulle potenzialità d’area vasta (omogeneità per geografia, storia, ottimizzazione dei servizi) sia sulla capacità di autoiniziativa dei comuni. Non sarebbe forse auspicabile per questo una presa di posizione in tal senso dei nostri amministratori? D’altronde è il momento giusto, perché è adesso che si forma la volontà politica per decidere. Sennò saranno comunque gli altri a decidere per noi. Un’ultima considerazione, rapida. Il ddl del governo reso noto venerdì (il cosiddetto svuotapoteri delle province) rende ancora più confusa e preoccupante la situazione esistente e più gravida di incertezze quella futura. Tutto fa immaginare tranne un lucido disegno di riforma generale in modi e tempi credibili. Allora conviene star buoni e aspettare gli eventi? Nient’affatto, semmai esattamente il contrario. Questo è comunque il tempo dell’azione!!!
P. Nel 1889 la camera varò il nuovo testo unico degli enti locali e durante il dibattito parlamentare affrontò il problema della riforma delle circoscrizioni del regno: province, circondari, mandamenti e comuni. Non se ne fece niente e i motivi furono spiegati dalla commissione parlamentare.
«La questione è complessa; da un lato si tratta di conciliare i beneficii di una forte organizzazione politico-amministrativa con la semplificazione dei pubblici servizi e le guarentigie richieste da un ben ordinato sistema delle di libertà della amministrazioni locali; beneficii che non si realizzano senza la base di una circoscrizione che leghi armonicamente fra loro le diverse parti del regno, e dia a ciascuna delle circoscrizioni gli organi amministrativi più idonei a raggiungere i risultati voluti; dall’altra parte si ha la necessità di non turbare troppo violentemente antiche divisioni, che hanno creato vincoli d’interessi, comunanza di aspirazioni e di propositi, anche se esse non corrispondano a un razionale ordinamento delle circoscrizioni amministrative.»
La questione rimane ancora complessa, anzi è aggravata dalle regioni che, come giustamente tu dici, devono entrare in ballo nella riforma. Quindi si tratta di conciliare geografia, storia, economia e scienza dell’amministrazione. Le proposte “scientifiche” di riforma da te citate, eccedono, secondo me, nell’esprit géométrique e difettano nell’esprit de finesse. Quanto al proliferare degli enti pubblici e quindi dei centri di spesa è ovvio che sia pernicioso, ma ancora più pernicioso è il sistema fiscale. Nell’ultimo mezzo secolo, l’alta burocrazia ministeriale ha indotto il parlamento a concentrare nello Stato la massima parte della raccolta fiscale allo scopo di soddisfare la comune libido dominandi con la dicrezionale distribuzione dei mezzi finanziari alla regioni e, direttamente o tramite le regioni, agli enti locali. La separazione della responsabilità della spesa dalla responsabilità dell’entrata ha non solo sfasciato il bilancio dello Stato e di migliaia di enti pubblici, ma ha indotto gli amministratori regionali e locali a impostare il loro successo sull’accattonaggio di fondi derivanti dalla fiscalità nazionale, invece che sull’equa raccolta di tributi locali e sulla spendita oculata del ricavato. Mi sembra il caso di insistere anche sulla riforma fiscale.
Il governo poliedrico di papa Bergoglio parla anche di noi
“La sua opzione [quella di papa Francesco] è chiara: la globalizzazione non si governa con una verticalizzazione piramidale e gerarchica dei poteri (è l’attuale scelta della Chiesa); non si governa con una logica di «sfera» in cui non c’è differenza fra i diversi punti e su cui si può lavorare solo con concertazioni più o meno collegiali (è l’attuale logica degli organismi sovranazionali); ma si governa attraverso un «modello a poliedro, che nell’unità mantiene l’originalità delle singole parzialità». Sembra l’eco di un’attenzione molto moderna al concetto di poliarchia asimmetrica, certamente inattesa nell’esponente più visibile di un potere monarchico”. (Giuseppe De Rita, Corriere della sera, 23.07.2013)
F. Proprio interessante questo papa che rifiuta di rilasciare interviste per non farsi deformare il pensiero e dettare l’agenda dai massmedia e affida la comunicazione al fare che fa capire il pensiero più che al pensiero detto ma non si sa se e quando realizzato. Ma Giuseppe De Rita, analizzando scritti di alcuni anni fa e discorsi e atti recenti, ci consente di andare oltre le impressioni del momento, pur essendo passati solo pochi mesi dall’inizio del pontificato di papa Francesco. Egli afferma infatti che già si possono individuare quattro opzioni di governo: “La prima opzione è per un’aderenza semplice e spietata alla realtà, mettendo in secondo piano il valore delle idee, dei progetti e dei programmi… Le idee classificano e definiscono, «la realtà è»; La seconda opzione è il privilegio da dare al tempo rispetto allo spazio, «perché il tempo inizia processi e lo spazio li cristallizza»; La terza opzione è quella che «l’unità è superiore al conflitto», e che la composizione delle cose va preferita alla segmentazione delle dialettiche sociali; Si capisce facilmente, da queste tre opzioni, quanto sia innovativa la quarta, quella relativa alla cultura di governo”. Si tratta appunto del “modello a poliedro”, che, senza far violenza alle singole parzialità, cerca di far prevalere le ragioni dell’unità su quelle di un’egoistica divisione. A me questa analisi pare, oltre che di estremo interesse di per sé, addirittura anche capace di darci indicazioni per come intervenire nella costruzione di nuove ipotesi di governo delle realtà locali, visto che le divisioni e le frammentazioni non mancano e c’è chi si adopera per mantenere in piedi schemi consunti che non porteranno, perché non possono portare, da nessuna parte.
P. Che Papa Francesco sia molto meno semplice e molto più intellettualmente attrezzato di quanto con superficialità si possa pensare, è ogni giorno più evidente. Che il sociologo di Stato Giuseppe De Rita ci ricami sopra col suo linguaggio immaginifico che gli ha portato sempre fortuna è scontato. Sono d’accordo con te che se ne possono ricavare spunti per riflettere sulle vicende di casa nostra, ma purché si tenga presente che il pensiero di Bergoglio, e pure quello di De Rita, sono rivolti al cammino dell’umanità sull’onda di una inarrestabile globalizzazione degli scambi di beni materiali immateriali. Non si governano fenomeni come la fame, i movimenti migratori, la speculazione finanziaria, le mafie internazionali, la tendenza delle classi sociali e dei popoli a livellarsi ecc. senza il punto d’appoggio di quella grammatica comune che tutti gli esseri umani liberati dalla fame e non obnubilati dai vizi sanno riconoscere. Credo che il Papa cerchi di indicarci il punto d’appoggio.
L’OCSE ci parla del nostro futuro, ma noi siamo in grado di ascoltarla?
“… il dopo Grande crisi sarà all’insegna della classe media. Nei Paesi ricchi come in quelli emergenti: per ragioni opposte, però. In questi giorni il presidente Barack Obama sta tenendo una serie di discorsi che ha al cuore la necessità di ridare sicurezze e maggior reddito a quella middle class … che negli ultimi anni ha visto ridursi la propria quota di ricchezza e di influenza. Il fenomeno vale per gli Stati Uniti, per l’Europa, per il Giappone… Dall’altra parte del mondo, nei Paesi in via di sviluppo, stanno invece formandosi classi medie imponenti: l’uscita dalla povertà indotta dall’economia globale e l’urbanizzazione hanno creato un fenomeno del tutto nuovo. Secondo l’OCSE la middle class globale salirà dagli 1,9 miliardi di persone del 2009 a 3,2 miliardi nel 2020 e a 4,9-5 miliardi nel 2030. La crescita di questa popolazione avverrà soprattutto in Asia, che nel 2030 avrà il 66% della classe media mondiale e il 59% dei consumi tipici del ceto medio (ma crescerà parecchio anche nell’Europa dell’Est)… La maggiore opportunità per le classi medie dei Paesi ricchi … non arriverà dalla redistribuzione dei redditi al loro interno ma proprio dal boom della popolazione a reddito crescente nei Paesi emergenti… Cosa vera per l’America di Obama ma anche, e forse in proporzione di più, per l’Italia … Se solo questa alzasse lo sguardo e vedesse che il mondo non è ostile e non si esaurisce a Roma. Anzi”. (Danilo Taino, Corriere della sera 26.07.2013)
F. Erano gli anni tra il 2004 e il 2006 quando RPO Spa elaborava la strategia di rifunzionalizzazione dell’area di Vigna Grande pensando a quanto stava avvenendo nel mondo e cercando perciò di preparare la città al suo futuro con quell’operazione straordinaria, ambiziosa e realistica insieme. Si sa come finì e però non si dirà mai abbastanza dei danni che sono stati fatti impedendo di mandare avanti quel progetto. Era infatti chiaro già allora dove stava andando il mondo ed era doveroso agire con determinazione e lungimiranza per non farsi sfuggire le opportunità indotte dai cambiamenti che si stavano con tutta evidenza verificando. Ora l’Ocse ci dice che cosa succederà con l’uscita dalla Grande crisi: crescita esponenziale dei ceti medi, nei Paesi BRICS e non solo, che consumeranno sì nei loro Paesi ma che anche si muoveranno, per turismo, affari, cultura. Li intercetterà chi avrà approntato per tempo le strategie giuste e fatto gli investimenti necessari. Il futuro si prepara guardando avanti e non stando con la salvietta sul braccio ad aspettare i clienti. Ma la classe dirigente capace di pensare ed agire così c’è già o ce la dobbiamo inventare?
P. Per non arrabbiarmi quando penso alle occasioni perdute e alle occasioni che si stanno perdendo, mi consolo con una frase che mi disse un’anziana conoscente dedicatasi, dopo una vita piuttosto disordinata, alle opere di bene: «Quando il corpo si frusta, l’anima s’aggiusta.» Le frustate sono arrivate e fanno male, speriamo che ci rendano più saggi… e che lo facciano in tempo.