di Leonardo Riscaldati
La scorsa settimana ho partecipato, come aggiornamento professionale, al Forum Nazionale sul Commercio Elettronico a Milano, organizzato da Netcomm, il consorzio italiano dell’e-commerce. È stata una giornata molto importante, che tra l’altro ha analizzato e presentato molto dettagliatamente i dati sullo scenario attuale e le tendenze per il futuro del settore in Italia e nel mondo.
I dati presentati la dicono lunga sulle opportunità del mercato. Vorrei condividere qualche dato, confidando che qualche soggetto, impresa o ente, un minimo “illuminato”, si renda conto che il treno sta passando proprio ora, e che va preso al volo, prima che altri si becchino i posti migliori, visto che la dimensione è internazionale (il mercato e le opportunità commerciali lo sono egualmente) e chi prima arriva meglio alloggia.
L’indagine è stata condotta condotta da Netcomm-ContactLab su un panel di 61mila consumatori italiani e di altri quattro paesi europei (Gran Bretagna, Germania, Francia e Spagna). Solo una notazione tecnica personale: un campione di oltre 60.000 consumatori è tanta roba, e dà grande precisione e credibilità ai dati.
Ecco alcuni numeri:
– Giro d’affari Italia 2012: oltre 11 miliardi di Euro
– Giro d’affari Europa 2012: oltre 305 miliardi di Euro
– Giro d’affari USA 2012: oltre 280 miliardi di Euro
– Giro d’affari Asia Pacifico: oltre 305 miliardi di Euro
– Crescita del fatturato in Italia del 2012 sul 2011: + 19%
– Crescita del fatturato in Europa del 2012 sul 2011: + 22%
– Previsione di crescita del fatturato Italia 2013 su 2012: +17 %
– Incremento dell’export: + 23%
– E-shopper italiani: 13,6 milioni (+ 50% sull’anno precedente)
– Abbigliamento: + 27%
– Informatica: + 24%
– Grocery: + 18%
– Crescita Mobile commerce: + 160% (numero impressionante, anche se con valore assoluto ancora basso, pari a 430 milioni di euro)
Mi fermo qui, ma ci sono una marea di altri dati che confermano la situazione. Non credo ci sia molto da commentare, specialmente se confrontiamo i dati con il mercato tradizionale, in crisi nera. Anzi, la stessa crisi è accentuata ulteriormente proprio dai cambiamenti di cui parlo.
È un fatto: sempre più consumatori nel mondo si informano e acquistano su internet. Io stesso, degli ultimi dieci acquisti, otto li ho fatti su internet.
Anche in Italia consumatori si informano quasi sempre sulla rete sui prodotti da acquistare (90% dei casi), ma in casa nostra siamo ancora molto indietro rispetto agli altri paesi europei. Infatti solo il 30% finalizza l’acquisto online, mentre un 70% continua ad andare nei punti vendita fisici. Questo è dovuto soprattutto alla non piena fiducia verso i pagamenti online. Ma anche questo scenario è destinato a cambiare in modo radicale. Basta guardarsi intorno e avere un minimo di buonsenso per rendersene conto.
Questo è un treno troppo importante per essere lasciato passare, perché rappresenta il presente e il futuro del business, e troppo spesso dei profondi gap culturali impediscono alle imprese di comprendere l’opportunità e muoversi di conseguenza. Se si crede di poter continuare ad infinitum a rimanere sul mercato con la modalità classica di business, si sta commettendo un grave errore. Un errore fatale. Dispiace dirlo, ma (ferme restando tutte le altre concause: tasse fuori controllo, crisi economica, burocrazia…) spesso una primaria causa del declino aziendale sono gli stessi titolari o amministratori delle imprese, che, bene che vada, credono che basti avere un sito (spesso fatto fare al nipote o allo smanettone che te lo fa per 150 €) o aprire una pagina su facebook per essere operativi. Non è così, per niente.
Oggi il discorso si sta facendo dannatamente complesso. Bisogna competere con realtà provenienti da tutto il mondo, organizzate, competenti, con prodotti di qualità, che combattono ogni giorno per vendere nei Paesi più diversi. Con problemi di logistica, integrazione, relazione. Parliamo di strategie di marketing digitale a livello complessivo, e le competenze richieste, chi non è specializzato, semplicemente non le ha (parliamoci chiaro, per sfatare una volta per tutte lo stereotipo che lavorare con internet sia un giochino. Io non mi posso improvvisare muratore soltanto perché so che va messo un mattone sopra l’altro insieme alla calce…).
È vero che per affrontare un mercato del genere servono investimenti. Ed è altrettanto vero che le risorse economiche al momento sono quello che sono, e molte piccole realtà non possono competere online (per avviare un serio progetto di marketing digitale servono almeno alcune decine di migliaia di euro). Ma il maggiore ostacolo non è quello economico, quanto invece quello culturale. Parlo di quel substrato di (non) conoscenza del mondo, delle sue tendenze, dello stato dell’arte, di competenza sugli scenari, che fa percepire la situazione nel modo corretto, e che fa emergere la necessità di operare di conseguenza, in modo competente, e non, ben che vada, amatoriale.
Esiste anche un asso nella manica, chiamato creatività, di cui noi Italiani siamo maestri, che potrebbe aiutare anche chi non dispone della massa critica economica per implementare un piano di marketing digitale adeguato. Vi butto là un paio di spunti. Idea 1: creare dei network di imprese di settore, complementari per quanto riguarda l’offerta commerciale, e di pari livello qualitativo, per ridurre drasticamente gli investimenti e proporsi sul mercato online con un’offerta più ampia, quindi più attraente. Idea 2, per reti di attività commerciali, che declino qui per un centro storico (Orvieto?): creare un piano di marketing digitale e un set di strumenti e strategie di ecommerce (sito, pagina facebook, twitter come crm, pinterest o instagram per le immagini dei prodotti, ottimizzazioni, posizionamento su google…), in cui siano presenti tutte le attività del centro storico, che vendano i loro prodotti e interagiscano con gli utenti. Senza perdere tempo, senza cercare parcheggio, si potrebbero acquistare i prodotti direttamente da casa. Il centro storico in un sito web, con la possibilità per gli utenti di dialogare coi negozianti e viceversa. Ma per fare questo non basta “il sitarello” o anche il creare una semplice vetrina di prodotti in vendita. Questo è l’errore culturale. L’errore che fa fallire questi progetti. Serve un approccio radicalmente nuovo, la comprensione di un nuovo paradigma, distante anni luce dal metodo tradizionale, che consiste, storicamente, nel “vado al negozio e aspetto il cliente”, o al limite nel “faccio un po’ di pubblicità”.
Chiaramente dei progetti del genere non solo vanno pianificati, strutturati e avviati, ma vanno soprattutto seguiti e monitorati. E tutto questo lavoro non lo può fare l’imprenditore o il negoziante, perché non dispone delle competenze necessarie.
Insomma, viviamo in un mondo che è radicalmente cambiato negli ultimi dieci anni, e che continuerà a cambiare in continuazione. Tutto questo richiederà sempre maggiori competenze e specializzazioni. Altro che “il sito me lo fa l’amico perché smanetta col computer e me fa’ spende poco”. Non capire questo, non capire l’importanza di tutto questo, la complessità delle attività necessarie, il livello di compretenza e specializzazione richiesto e le sue implicazioni (il come dovrà cambiare l’organizzazione e il funzionamento aziendale) è semplicemente da suicidio economico.
Vorrei chiudere con una considerazione, che ritengo di primaria importanza. C’è un altro aspetto fondamentale, che (ovviamente!) non si sta attuando: bisogna dare spazio ai giovani. I giovani in questo contesto rappresentano una risorsa straordinaria. I giovani sono molto pratici dell’uso della rete, e sanno come funzionano gli strumenti digitali e i social media, anche se l’utilizzo che ne fanno non è corretto per il business. Quello che bisogna fare è insegnare loro l’utilizzo giusto, un utilizzo che necessita di competenze, anche tecniche, di alto profilo e assolutamente non improvvisabili. La scuola è fondamentale in questo, ma come diceva giustamente il presidente del consorzio durante un suo intervento, bisogna prima di tutto insegnare agli insegnanti, che spesso non conoscono la materia. Altrimenti si continueranno a sfornare diplomati che traducono il greco, ma che non sanno come si fa nascere un’impresa digitale, o come adeguare ai tempi l’impresa di famiglia.
Credo che sia il modello Italia a essere stravecchio. In realtà mi risulta difficile anche lo stesso parlare di Italia, visto che da nord a sud ci troviamo di fronte a scenari distanti anni luce. Però da qui si deve passare, per avere una prospettiva di lungo periodo. Il presidente del consorzio ha detto che con i governi passati, in ultimo con quello Monti, hanno più volte provato a stimolare degli interventi importanti e radicali per adeguare le strutture e promuovere una rivoluzione culturale. Secondo voi come è andata a finire? Ecco.