di Mario Tiberi
Secondo i più accreditati politologi, gli anni d’inizio della devastante crisi ancora in essere hanno decretato l’atto di nascita della cosiddetta “Antipolitica”.
Con codesto termine si intende, in tutto il mondo, la pretesa di organismi associativi, più o meno rilevanti ed influenti, di poter tranquillamente rinunciare alle strutture e al personale della politica nella individuazione e risoluzione delle questioni afferenti la sfera pubblica. Connessi al fenomeno, che appunto si registra ovunque, sono la crescente sfiducia nelle leadership politiche, l’emergere di figure autocratiche o oligarchiche provenienti dalle imprese dominanti e/o dalle università, il peso crescente delle aziende private negli affari pubblici, la diminuzione della partecipazione popolare nelle competizioni elettorali, la tendenza ad originare enclavi, anche di modeste dimensioni, autarchiche e ferocemente ostili verso il loro esterno e, senza andare oltre, così via.
Il fenomeno è indubbiamente complesso e di estrema rilevanza. Qui in Italia, però, con tale espressione si tende a mettere a fuoco solo un aspetto dell’intera questione, vale a dire la disaffezione delle cittadine e dei cittadini verso le caste politiche e la loro abissale lontananza dal sistema dei partiti. E ciò, dagli osservatori di ogni tendenza, viene considerato come una preoccupante patologia o, quantomeno, come una devianza rispetto ad una condizione di “normalità”. La condizione di normalità, a cui si dovrebbe ritornare dopo aver superato lo stato di malattia, è quella che eminenti studiosi, tra gli altri Pietro Scoppola, hanno definito, pur criticandola, la “repubblica dei partiti”, ossia un gigantesco apparato in cui l’insieme dei partiti è in grado di rappresentare senza scarti, a guisa di microcosmo, l’intera società per guidarla chissà dove e, comunque, sovrapponendosi allo Stato.
Si tratterebbe di una società, forse a libertà limitata, in cui il partito serve anche per imparare a leggere e scrivere, per reperire un posto di lavoro, per costituire una cooperativa, per conoscere più i doveri che i diritti, per abbozzare timidi tentativi di sperimentazioni egualitarie et cetera.
Senonché i partiti, nelle loro forme tradizionali, sono sull’orlo del dissesto fallimentare e, quindi, ritengo che considerare lo “statu quo” in termini prevalentemente di conflitto di cittadinanza possa giovare ad una miglior comprensione dello stigma dell’antipolitica come a un processo di ridefinizione del rapporto tra politica e cittadinanza stessa. In questo senso, l’antipolitica perde definitivamente i suoi connotati di patologia!.
Infatti, un’autonoma soggettività politica si è manifestata e sta prendendo piede con particolare riferimento alle questioni connesse al riconoscimento e all’effettiva tutela dei diritti, alla cura dei beni comuni come, ad esempio, l’ambiente, al sostegno degli interessi generali in contrasto con interessi privati. Direi, anzi, che il conflitto di cittadinanza abbia, al suo centro, proprio la rivendicazione morale e pratica di autonomia del popolo nell’ambito pubblico.
Ma, ancora, non è tutto. I partiti, anziché ripensare con coraggio il proprio modo di essere e di operare in contesti completamente mutati, hanno stolidamente affidato il tentativo di rafforzamento della loro sempre più incerta legittimazione ad un abbraccio soffocante con le Istituzioni e, man mano, alla non ostacolata possibilità di raccogliere, detenere e gestire denaro pubblico o altre risorse comunque derivanti dalle pubbliche attività.
Allora, la patologia non risiede tanto nell’antipolitica, quanto piuttosto nella politica marcia e truffaldina degli almeno due ultimi decenni che ha generato, per sventura del nostro popolo, il male endemico affliggente la società italiana: la condizione di una democrazia repubblicana in condominio tra partiti senza fiducia e cittadini senza rilevanza.
I tempi, però, volgono verso un maestrale impetuoso che, giorno dopo giorno, sta riconsegnando a quest’ultimi la coscienza della loro dignità di cittadini e il senso pieno della loro personalità identitaria. Difendere, sempre per esempio, una falda acquifera o un rilevante patrimonio paesaggistico, oppure l’opposizione alla collocazione di una discarica su un terreno franoso scelto per motivi puramente speculativi, o ancora la contesa di civiltà contro la destinazione di rifiuti pericolosi decisa senza la minima consultazione delle comunità interessate, questi sono gli indici di quel vento di tempesta purificatrice a difesa di diritti e beni comuni minacciati, elusi o semplicemente ignorati.