di Mario Tiberi
Ho letto, ripetutamente e con crescente attenzione, il documento con cui l’economista Fabrizio Barca si propone di esercitare un primario ruolo politico all’interno di un moribondo Partito Democratico.
Sostiene Barca, ed è la sua tesi centrale, che per salvare l’Italia bisogna far rinascere dei partiti e/o dei movimenti politici credibili e decenti senza cui, e dunque senza via di scampo, neanche il più illuminato dei governi combinerà mai nulla di efficace e di realmente utile alle disastrate sorti della nostra Nazione. E indica, quale inevitabile conseguenza, il trasformarsi da legittima protesta in altrettanto legittimo consenso il già ampio ottenuto dal Movimento5 Stelle.
Si è di fronte a un “signore démodé”, oppure ad una raffinata “operazione vintage”?.
Né l’uno e né l’altra!.
Fabrizio Barca, per anni, ha svolto funzioni di pubblica amministrazione come esperto di tecnica economico-finanziaria prima alla Banca d’Italia e, poi, come consulente in svariati dicasteri dello Stato Italiano. Nel tempo libero, ha scritto ponderosi saggi di storia del capitalismo nostrano ed internazionale, descrivendone le fragilità strutturali e le ormai divenute inadeguate potenzialità di produrre crescita e benessere. Di sera frequentava i massimi rappresentanti della “gauche” capitolina addivenuta ai vertici supremi delle Istituzioni Repubblicane, dal Quirinale ai santuari mediatici della “sinistra elitaria”; di giorno viaggiava nei distretti territoriali e nelle periferie delle megalopoli italiane alla ricerca di funzionari pubblici a cui chiedere supporto ed ausilio burocratico.
Così, alla lunga, è piombato addirittura come Ministro nel governo dei “sapientoni eccellenti” presieduto da Monti, uno dei premier con il più alto indice di impopolarità.
E’ fondato immaginare che gli sia scattata lì, da tecnico tra tecnici, la “pazza idea” di resuscitare un partito di sinistra giacobino ed oltranzista, concepito niente meno che come antidoto alla crisi economica più grave della nostra storia.
La sua idea-base risiede nella convinzione che per comprendere appieno, supportare efficacemente e trovare idonei rimedi alla sofferenza sociale diffusa sarebbe necessario, ora e non domani, una metamorfosi antropologica dagli eccesivi “Io”, rabbiosi e frustrati, a dei “Noi” consapevoli e servizievoli, anticamera questa, ad un riscoperto riconoscersi, operare insieme, tornare a sentirci comunità.
Insomma, la democrazia non è soltanto partecipare alle elezioni o scegliere alle primarie i candidati da votare alle successive consultazioni elettorali: è, invece, individuare appropriate sedi politiche dove confrontarsi sulle scelte prioritarie e dirimenti, dove guardarsi in viso abbattute le maschere dell’ipocrisia e delle falsità, dove ricostruire canali permanenti di collegamento con i rappresentanti istituzionali senza cui, sventura dietro sventura, sarà impensabile addivenire a forme nobili di “Buon Governo”.
Tutto bene; senonché non mi pare proprio che gli attuali obsoleti dirigenti del PD siano capaci di sintonizzarsi su tali lunghezze d’onda poiché ciò provocherebbe, in un partito imbalsamato, una ecatombe biblica che travolgerebbe innanzitutto coloro i quali hanno acconsentito al trasferimento in Parlamento, attraverso primarie di facciata, di una pletora imbarazzante di numerosi loro funzionari periferici.
Quanto sopra, Barca lo scrive usando un linguaggio, a mio giudizio, volutamente criptico come, ad esempio, l’utilizzo della parola “catoblepismo” per indicare il rapporto incestuoso fra banche e faccendieri oppure, quello, di cinica fratellanza siamese che andrebbe reciso, una volta per tutte, tra regime partitocratico e articolazioni statali. Si lasci perdere, però, lo “sperimentalismo democratico” o la “mobilitazione cognitiva” che, se ve ne fosse ancor di bisogno, ci rammentano come per gli intellettuali sia sempre in agguato il pernicioso pericolo di una ricaduta in sfrenata mondanità mentre, al contrario, ci si soffermi a considerare che, invece di una geniale ricetta matematica anticrisi, sarebbe preferibile segnalare il percorso di una faticosa, ma necessaria, via della partecipazione e della democrazia diretta. Questo sì, è parlare chiaro!.
Come chiare e limpide sono le espressioni che ripropongono con robusto vigore il concetto del diritto di ogni cittadino ad essere titolare di diritti, soprattutto quelli umani ed universali, ed è quel che ha ribadito con forza Stefano Rodotà, giurista civilista, politico libero ed autonomo, occasione persa e sprecata stoltamente di un non più rimandabile avvio di una moderna politica di radicale cambiamento e di rottura con il passato.
“La stagione dei diritti si rivelerà effimera se non sorgerà un nuovo senso del dovere”: è forse questo il vero testamento spirituale di un Uomo che, in nome della difesa delle libertà democratiche, ha patito il sacrificio sull’altare dei diritti del diritto primario e, cioè, del diritto alla vita.
E i diritti, affinché siano realmente tali, debbono essere istituzionalmente riconosciuti e praticati e, se sono riconosciuti e praticati, producono d’incanto il risveglio del senso del dovere e lo ampliano e lo esaltano.