di Mario Tiberi
Il cavaliere per eccellenza della Repubblica Italiana, il signor Silvio Berlusconi, non è ancora stato condannato in via definitiva per le molteplici ipotesi di reato a lui contestate, anche se molto probabilmente lo sarà, e già da alcuni settori della politica e della cronaca giornalistica si inizia, in modo alquanto ossessivo, a parlare di possibili provvedimenti di clemenza nei suoi confronti.
Gli argomenti utilizzati per motivare la suddetta eventuale clemenza sono tra i più disparati, ma il maggiormente rilevante in assoluto, e forse anche il più pertinente nella sua impertinenza, risiede nella circostanza che in tale maniera si potrebbe chiudere una volta per tutte il conto con il cosiddetto “berlusconismo” o, perlomeno, con i suoi lati più oscuri.
Ora, mentre sull’argomento in sé non ho nulla da obiettare, trovo comunque stravagante e bislacco andare alla ricerca di un tentativo di chiusura dei conti con un recente passato non certo esaltante, per non dire avvilente e mortificante, imboccando una scorciatoia anziché la via maestra. La scorciatoia sarebbe quella di adottare delle guarentigie giudiziarie facendo finta, turandosi naso ed orecchie, di non vedere che la natura della questione non è tanto giudiziaria quanto, piuttosto, storica, politica e di cultura pubblica.
La via maestra, invece, è quella della verità sull’insieme degli atti e dei comportamenti, compreso il sig. Berlusconi, di tutti coloro che hanno inteso ed intendono, ancor oggi, esercitare funzioni pubbliche nell’amministrazione dei Comuni, delle Regioni e dello Stato in genere.
Quando qui uso l’espressione “Verità”, mi propongo il riferimento sia a decifrazioni di profilo medio-basso e sia, in massima misura, a spiegazioni più elevate che siano in grado di rendere conto dei fatti decisionali incidenti sui destini di intere collettività e che ci aiutino, appunto, a definire di che cosa serbare memoria giacché la memoria, per sua propria natura, non è una collezione approssimativa di ricordi così come la verità non è una collezione vaga di fatti poiché, entrambe, richiedono meditazione, riflessione, interpretazione e, non da ultimo, assunzione di responsabilità.
Rammento di aver letto, tempo addietro, le risultanze a cui pervenne la “Commissione per la Verità e la Riconciliazione” che fu istituita in Sudafrica all’indomani della fine del regime della “apartheid”. Senza entrare in dettagli fuori luogo, mi preme però evidenziare come detta Commissione operò e, cioè, che mise al centro della sua azione l’alto e nobile principio che non vi può essere riconciliazione se non su una base di verità e che, di conseguenza, non vi può essere nessuna misura di giustizia che possa ridare ciò che è stato tolto e per cui, inevitabilmente, l’accertamento della verità diviene il massimo verso cui tendere ed aspirare e il minimo in funzione della ricostruzione di un tessuto di convivenza civile vulnerato.
L’esempio del caso sudafricano mi conduce, dunque, ad invertire i termini della questione in argomento e a pervenire a conclusioni opposte: ossia che un provvedimento di clemenza non è la via per ottenere la verità ma, totalmente al contrario, è la verità appurata che come “extrema ratio” può eventualmente guidare verso un provvedimento di clemenza.
Non bisogna mai barattare la giustizia con la verità; semmai è la verità l’unica forma di giustizia praticabile o auspicabile e, in ogni caso, è ciò di cui necessitiamo per liberarci dei fantasmi del passato e, insieme, riscattare le negatività e trasformarle in elementi rifondativi, per quanto tormentati, della nostra storia e della nostra identità comunitaria.
Ritengo, infine, che quello dell’accertamento della verità sia un compito complesso e fors’anche doloroso, ma rimane ineludibile se si vuole nutrire la speranza che esso possa realizzarsi ricorrendo ad un esemplare concorso di volontà, intelligenze e responsabilità. Altrimenti non avremo strumento alcuno per uscire dallo stato di “impasse” nel quale palesemente, oggi, siamo immersi.
“Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra un atomo di verità, e io sarò comunque perdente”: se Silvio Berlusconi riflettesse anche solo per un attimo sul pronunciamento attribuito ad Aldo Moro, testé riportato, probabilmente la smetterebbe di andare alla ricerca spasmodica di un consenso elettorale privo di valore se orbato della cosciente consapevolezza che un uomo è vero solo se plasmato di verità.