di Mario Tiberi
Nei giorni appena trascorsi ciascuno di noi, almeno per una volta, avrà sentito proferire l’espressione “Presidente della Repubblica e/o Presidenza della Repubblica”.
Siamo certi, però, di conoscere compiutamente il significato di detta espressione e di saperlo riferire alla massima carica istituzionale così come statuito dalla italica Carta Costituzionale?.
Mi proverò a fornire alcune delucidazioni, utili a meglio comprendere.
L’elezione del Capo dello Stato è stata quasi sempre una sorta di gioco delle carte o di una lotteria in cui, per di più, il banco o i biglietti sono tutti quanti in mano alle forze politiche. Non è mai esistita e forse mai esisterà, “rebus sic stantibus”, la possibilità di una candidatura proveniente da quella che, con eufemismo di maniera, viene definita come “Società Civile”.
Il problema nasce proprio dalla formulazione della medesima Carta Costituzionale, venuta alla luce in funzione di una Repubblica che si volle saldamente fondamentata sul sistema e sul ruolo dei partiti in quanto, questi, estrinsecazione di ineliminabile struttura organizzativa della democrazia.
Recentemente, ci siamo appassionati a seguire avvincenti sfide per la presidenza di altre Nazioni, Stati Uniti e Francia, tanto per solo evidenziare le più eclatanti esperienze elettorali maggiormente vicine nel tempo. Ma, in quelle Nazioni, l’elezione è affidata direttamente all’intero corpo sociale, non delegata al Parlamento, poiché il Capo dello Stato per dettato costituzionale incarna in sé la figura con i più alti poteri potestativi ed esecutivi.
Da noi, usciti da un ventennio di dittatura fascista, si decise che non dovesse mai ulteriormente esistere un eccessivo potere nelle mani di una sola persona. I poteri del Presidente della Repubblica furono così grandemente limitati a favore di quelli, per intenzionale scelta, del Parlamento e del Governo e, nel Governo, non si volle un Primo Ministro, ma solamente un “primus inter pares”. Fu delegata ai partiti anche la scelta del “notaio”, cioè del Capo dello Stato.
Dopo quasi settanta anni, però, e valutata al negativo l’impotenza della politica tradizionale sia ad autoriformarsi che a riformare, le nefaste ripercussioni dell’inciso appena esposto hanno ineluttabilmente condotto al risultato che, mentre il ruolo e i poteri del Presidente della Repubblica si sono di gran lunga ampliati almeno nella sostanza, la sua elezione avviene ancora con modalità opache ed anacronistiche. Non esiste alcun ambito nel quale discutere di candidature o alleanze alla luce del sole: l’assemblea dei grandi elettori, composta dai deputati e dai senatori oltre che dai rappresentanti delle Regioni, si riunisce solo per votare e l’aula di Montecitorio si trasforma in mero seggio elettorale, senza diritto di parola per gli elettori stessi.
Spettava, e spetta ancora, ai partiti decidere tra di loro fuori da quell’aula!.
Così, i veri grandi elettori restano oligarchicamente i segretari delle formazioni politiche e, nel caso in specie, tutto si è consumato tra quattro/sei esponenti di rilievo nazionale.
A parte la lodevole eccezione dei “Cinque Stelle”, vi è da rimarcare la totale mancanza di una sia pur blanda consultazione con le cerchie degli iscritti, dei simpatizzanti e nemmeno con gli organismi dirigenti ai diversificati livelli. Tutto ciò, e nessuno lo può negare, è finito per scadere in quella orribile sceneggiata alla quale avremmo preferito non dover assistere.
Mi si conceda, da ultimo, una constatazione amara quanto disarmante: il Presidente eletto, successore di se stesso, è stato il frutto di un mercanteggiamento tra “capi di partito” in odio tra di loro fino all’altro ieri e tale mercimonio, aspetto ben più grave, parrebbe non aver tenuto conto delle enormi difficoltà che il nostro popolo dovrà comunque fronteggiare. Opinionisti maliziosi, ma sicuramente meno estranei alle realtà oggettive rispetto ai politicanti di mestiere, hanno dichiarato che si è voluto un Presidente per le prossime sette settimane o, al massimo, per i prossimi sette mesi. Ai sette anni, sembra non essere interessato nessuno salvo, esausta, la nostra “Povera Italia”.
Ma quest’ultima, al decadente romanzo della politica, può ancora solamente e supinamente assistere da impotente spettatrice fino al raggiungimento del punto di rottura e, allora, non ve ne sarà più per alcuno!.