di Nello Riscaldati
Ai primi dell’anno 1997 se ne partì per un viaggio infinito Cesare Riccetti, falegname rifinito. Sembra un gioco di parole ma la verità è che il mestiere a quel livello è sulla via dell’estinzione. Il legno si può lavorare in mille modi. Cesare lo lavorava bene.
Pialle, pianozzi, pialletti, sponderuole, martelli, mazzuoli, scalpelli, seghe, sciabolotti, graffietti, sergenti, squadre, squadrette, compassi, girabacchino, trapano a pugnetta, buzzichetto della colla, stecche, ricci e segatura,..questi e altri mille aggeggi costituiscono l’arredo della bottega del falegname, oltre, naturalmente, il bancone e le indispensabili macchine elettriche
Da annotare come a quasi tutti i falegnami anziani manchi qualche dito della mano destra, di solito troncato da una pialla a filo o da una sega a nastro. Pericolosità delle prime macchine elettriche e inesperienza iniziale ad usarle. A mio padre ne mancavano tre, cosi come a Michele Michelangeli ed a Remo Riccetti padre di Cesare.
Anche la bottega di Marcello Conticelli è sulla via della chiusura ed anche lui non lascia eredi nel mestiere. Peccato! Ed ancor più peccato perché con quella piccola officina, dove si lavorava il ferro “battuto” ed, artisticamente, i metalli preziosi, si perderà anche un know-how veramente enorme e del quale Orvieto resterà pressoché orfana non sopravvivendo in nessun angolo della città qualcosa che gli assomigli a quel livello.
Una piccola bottega in Via Vivaria, (un tempo conosciuta come “lo scorticatoro”), dove hanno visto la luce tanti lavori oggi in giro per il mondo e dove anche tutti gli arredi metallici del Corteo Storico sono stato ideati e realizzati così come l’attuale reliquiario dove è racchiuso il Corporale di Bolsena.
Gli arredi di un’officina del genere sono la forgia, l’incudine, la mazza, i martelli, gli scalpelli, ma anche il bulino, il crogiuolo, i ferri da cesello, da sbalzo e da ageminatura.
Ed è lì, tra la forgia, l’incudine, che il ferro da grigio diventa rosso e sotto i colpi sapienti di mazza e martello, si fa docile, si torce e si avvolge per diventare riccio, foglia o voluta.
Anch’io ho frequentato per anni quella bottega menando armoniche martellate su verghe di ferro e lastre di rame facendole diventare coppe per candelieri o foglie cadenti e sono contento di averlo fatto perché mi piaceva e voglio ricordare tutti quelli che vi hanno validamente praticato il mestiere come Bucaione, Ricciolino, Antonio, Mauro, Luigi e tutti gli altri che nei decenni hanno lavorato in quella fucina.
Oggi Marcello se ne è andato. E’ andato via da questo porco mondo dove la gente non paga più nemmeno il lavoro ben fatto. Se n’è andato ai primi di Agosto del 2009. Se n’è andato ma il ricordo della bottega di Via Vivaria gli sopravviverà almeno per un po’ perché quello era il posto dove, a partire dagli anni ’50 ha avuto bottega Marcello Conticelli, maestro orvietano della lavorazione artistica dei metalli.
Ma di maestri ce ne sono stati tanti.
-Artigiani, artisti, artigiani-artisti: Ravelli, Puppo, Tenerelli, Papalini, Santarelli,…e poi i falegnami Memmo “‘r Sòrdo” e Spartaco detto “’r mortaletto”, mio padre Ferdinando detto “il Mastro”, Ulderico Stornelli, uno dei “sette martiri” di Camorena con bottega alla Gonfaloniera, Sisto Ermini con bottega alle Conce, Vezio Venturi a Ripa Serancia, Angelo e Michele Michelangeli, Remo Riccetti padre di una dinastia di falegnami tornati tutti dal padre, ultimo Ventura, lasciando solo in questo mondo Sergio Riccetti, il popolare “Ceci” o “Mendoza”, che però è stato solo figlio di falegname e poi ancora Barcaroli e Sangiovanni veramente ultimi rappresentanti della lavorazione artistica dell’abete.
E poi nel ramo metalli sono da ricordare il bravissimo Luciano Coppola anche lui allievo di Ravelli, ed ancora Angelo Bucaioni, Ricciolino, e come dimenticare Romolo Montanucci, scultore, maestro della fabbriceria del Duomo, e diecine e diecine di altri nomi, molti scomparsi, alcuni fortunatamente ancora fra noi, mentre mi scuso con i non citati, rischio che si corre sempre quando vengono rievocati i componenti di una categoria.
I calzolai erano uno stormo e le loro botteghe di solito un buco. Tolto “Sbiciola”, alla Cava, altri non me ne ricordo ma forse è meglio così. Ma erano tanti. Voglio almeno però rievocare i “ferri” usati in quel mestiere.
Dal banchetto quadrato, al cuoio e alle tomaie che tappezzavano il “ buco” dove si lavorava, e poi le forme di ferro per i tacchi e le suole, i martelli rotondi, i trincetti ,il punteruolo, la lesina, la subbia, lo spago, la pece, la cera d’api, la colla e le semenze,…!
Io mi ricordo ancora della bottega del Cionchi fabbro in Vicolo Albani vicino al Liceo Classico. Era tutta nera per il fumo della forgia ed anche lui era tutto nero.
E nera come quella del Cionchi erano le altre botteghe di fabbro di “Bìcchere” al “Cordone”, di Carlo in Via Simoncelli, di Bruciaferro, di Garganella, di Mozzorecchio in Via della Cava, di Sciabolotto, di Ticopio, e di decine di altri artigiani tutti neri di forgia e che hanno speso la loro vita tra fumo, polvere e salute compromessa ed alcuni di loro anche tra fame e debiti riuscendo con tante fatiche a malapena a sopravvivere.
E noi siamo loro debitori per tutto quello che hanno fatto o lasciato. Cose piccolissime, cose piccole, cose grandi e cose grandissime, ma per le quali nessuno di loro, o quasi, ha ricevuto dagli altri quanto avrebbe dovuto e quanto sarebbe stato giusto avere. La gente non pagava il dovuto nemmeno in passato.
Di solito nei pressi delle botteghe artigiane si trovava sempre un Osteria, o un “Vino e Cucina”. E la mattina verso le dieci e nel pomeriggio verso le cinque era possibile assistere ad una migrazione di individui più o meno polverosi, verso questo irresistibile punto d’aggregazione.
Chi portava pane e cacio, chi uno spicchio di pizza, chi un orletto di pane tosto, chi, nel pomeriggio, si permetteva la spesa di sei soldi per acquistare un biscotto con l’anice per fare la zuppa e poi giù a discutere di soldi, di lavoro, di donne e di fatti del vicinato. Insomma quelle due mezzore davano sapore alla giornata. Ma la bottega non restava vuota.
Un’ultima figura va infatti ricordata ed è quella del “maschietto di bottega” e cioè dell’apprendista che entrava a sette, otto anni se andava male a scuola o comunque, specie per le famiglie più povere, non appena fatta la quinta. Per i primi mesi non veniva pagato anzi doveva stare attento lui a non combinare danni, poi se cominciava a capire il “mestiere” e a rendere qualcosa, il “padrone” in cambio gli elargiva la cosiddetta “settimana”, insomma una specie di mini-paghetta. Per un ragazzo di quell’età che non andava più a scuola avere un “padrone” e una “settimana” era molto importante.
Molti di questi “maschietti”, che poi erano quelli che oggi chiamiamo apprendisti, impararono bene il mestiere e, o aprirono bottega o trovarono lavoro in quelle esistenti.
Altri tempi, altra moneta, altro tutto. E per troncare la malinconia, chiudo con due versi che mi assicurano essere nati in quei tempi sul filone della lotta perenne fra padronato e lavoratori:
“ E’ notte, è notte ed il padron sospira ch’è stata troppo corta la
giornata!
“Risponde il ragazzino di bottega: ”E’ stata corta un ca,…che te
frega!”
Ben venga maggio e ‘l gonfalon selvaggio,…per tutti!”