di Gianluca Foresi
Cultura va cercando chi per lei vita “non” rifiuta.
Inizio con una parafrasi di alcuni versi del primo canto del Purgatorio di Dante Alighieri “ Libertà va cercando chi per lei vita rifiuta” queste riflessioni su quello che io intendo per cultura.
Non sono così fondamentalista o fanatico da pensare che si debba morire per la cultura, ma sono convinto che si possa e che si debba vivere per e con essa. Certo è che senza libertà è difficile che ci sia o che si possa fare cultura, ma forse è anche difficile che senza cultura si dia la libertà.
Dovremmo fare in modo che essa ci nutra come ha fatto il latte materno quando eravamo appena nati. Noi come “poppanti” della cultura, che con avidità andiamo in cerca del seno della madre, che per un infante è la vita. E’ l’istinto alla sopravvivenza che spinge il neonato a puntare dritto alla fonte vitale: e noi, quando si parla di cultura, dovremmo ritornare istintivamente alla grande madre che ci nutre.
Forse la metafora potrà sembrare azzardata, ma dobbiamo far passare l’idea che senza cultura non ci sia crescita, non ci sia vita, per un popolo; e forse nemmeno speranza. Dobbiamo iniziare a pensare alla cultura come qualcosa di indispensabile, intrinseco, naturale, che accompagni l’uomo lungo tutto il corso della sua vita e ne completi l’esistenza.
La cultura però non come fiore all’occhiello di pochi, ma come attività che sia resa appetibile ai più: bisogna scalzare l’idea corrente che la cultura sia qualcosa di distante e noioso. Ma chi fa cultura in questo paese vuole veramente coinvolgere più persone possibili? O non teme forse che questa eventualità possa impoverire e svilire il suo prodotto artistico? E’ forse diffusa la convinzione che la condivisione significhi svilimento? Credo che molti purtroppo ritengano vera quest’equazione: maggiore accessibilità, minore valore culturale. Proprio in questo periodo in cui sembra che in Italia l’interesse per la cultura stia toccando il fondo, è propizio il momento di liberare la cultura dal giogo dell’inaccessibilità. Questo non significa che essa debba perdere il suo valore o debba snaturarsi, ma che coloro che ne sono i protagonisti abbandonino i loro piedistalli e diventino messaggeri di cultura, apostoli dell’arte.
L’arte deve mantenere l’aurea del sacro, ma con una sacralità vicina alla definizione di Felice Cimatti: “l’esperienza del sacro non ha nulla a che vedere con la religione; il sacro è un esperienza, qualcosa che facciamo, che tutti possono fare e alla quale tutti possono accedere.” Bisogna comunque produrre cultura di valore ma, a mio avviso, utilizzando codici e linguaggi più accessibili: lo stesso contenuto servito in un contenitore diverso.
Un modo per rendere questo contenuto più desiderabile e che incuriosisca i più refrattari potrebbe essere quello della contaminazione dei generi. Penso a Petrolini che con il suo Nerone romanesco faceva arrivare l’eco della storia romana attraverso la macchietta. Penso al modo poco accademico, ma efficace e leggero che utilizza Philippe Daverio nel raccontarci la storia dell’arte. Penso a Pier Paolo Pasolini intellettuale raffinato “impastato fra la gente delle borgate. E’ giunto forse il momento di mandare in pensione i soloni paludati nei loro titoli, che si nascondono dietro fiumi d’inchiostro e parole altisonanti usate solo per il gusto di stupire. L’uomo che vuole fare cultura dovrebbe ritornare allo stupore del fanciullino pascoliano e al desiderio di diffondere e non di trattenere la cultura: solo così potrà tornare a stupire.
Il cosiddetto uomo di cultura invece di attendere arroccato nella sua conoscenza autoreferenziale, che lo fa “essere nel mondo senza sentirsi del mondo”, deve compiere il primo di una lunga serie di passi e andare incontro a coloro che non sono interessati al suo messaggio. La cultura in questo paese è stata quasi sempre privilegio di un oligarchia che ha custodito gelosamente il suo ruolo egemone: pochi i soggetti che si sono alternati nel ruolo di propositori e fruitori. La sfida è semplificare, non tanto i contenuti quanto le forme di comunicazione. Così facendo si dovrà cercare di coinvolgere tutti quelli che sono stati trascurati e che abbiamo perso durante il cammino. Chi fa cultura non deve pensarsi come appartenente ad una casta, ma deve considerare il proprio lavoro come una missione: il suo è un servizio non solo per la cultura, in cui il pubblico ha il solo fine di fornirgli quel riconoscimento di cui ha narcisisticamente bisogno, ma è anche un servizio per il pubblico. Mi piace pensare alla persona che fa cultura come ad un Jeeves, il protagonista dei romanzi di Wodehouse scrittore umoristico inglese: un maggiordomo intento a servire il proprio signore, senza perdere la propria identità. L’uomo di cultura come un Jeeves al servizio del pubblico.