di Mario Tiberi
Diversamente da quello che Vi potreste attendere, non commenterò analiticamente i risultati elettorali essendovi poco o nulla da commentare: l’unico vero grandioso vincitore è stato il Movimento5Stelle. Mi limito solamente a ripetere ciò che ebbi a dichiarare una ventina di giorni orsono e, cioè, vedremo come codesta forza politica vincitrice si atteggerà in Parlamento e sarà un immenso e rivoluzionario piacere sia per i nostri occhi e sia per le nostre orecchie.
Piuttosto, ciò che è accaduto mi spinge ad una ulteriore riflessione sul concetto di democrazia e libertà che, sommessamente ma non troppo, mi pregio sottoporre alla Vostra diligente e partecipata attenzione.
La libertà di cui intendo scrivere non è quella della coscienza individuale che pur vive anche in condizioni di privazione materiale della stessa, ma è la libertà pratica dell’uomo comune che si estrinseca nel poter esporre pubblicamente, senza timori, il proprio pensiero e di difenderlo contro gli avversari; è la libertà delle minoranze di propagandare le proprie idee contro la maggioranza al fine di diventare, un giorno, esse stesse maggioranza; è la libertà di esercitare un mestiere o una professione piuttosto che un altro o un’altra e senza impedimenti, fuor di quelli richiesti dal diritto altrui di non vedersi danneggiati nelle loro attività; è la libertà di muoversi da luogo a luogo senza sottostare a vincoli che, se presenti, non sono nient’affatto diversi dal domicilio coatto o dalla servitù della gleba; è la libertà, infine, di poter dire “peste e corna” dei governi al potere, nei giornali e sulle piazze, salvo a pagarne il debito con la giustizia in caso di calunnie gratuite od ingiurie infondate.
Le libertà sopra enunciate rientrano a pieno titolo in quelle definite come civili e politiche che, però, non possono avere vita vera se non siano accompagnate da un’altra libertà, quella economica.
A che serve, infatti, la libertà politica a chi dipende supinamente da altri per soddisfare ai bisogni elementari della sua esistenza? E’ sufficiente offrire all’essere umano la sicurezza della vita materiale, concedergli la libertà dal bisogno, perché egli sia veramente libero nella dimensione civile e politica, perché egli si senta davvero uguale agli altri esseri umani e libero dall’obbligo di soggiacere nella scelta dei governanti, nella manifestazione del pensiero e delle credenze?. Proprio no; la libertà economica è “absoluta condicio sine qua non” della libertà politica.
Quest’ultima, che per l’uomo astratto è un essenziale elemento del tutto morale, diventa invece, per l’uomo concreto nei rapporti con i suoi simili, un accidente fattuale strettamente connesso con una determinata struttura economica della società nella quale esplica il suo agire esistenziale.
La storia, non solo recente, insegna che due estremi hanno svolto la funzione di compressori liberticidi della umana coscienza: il capitalismo monopolista e il comunismo collettivista.
Il primo estremo conduce alla considerazione che, se nessuno può vivere se non a salario del capitale, la moltitudine popolare sarà per forza di eventi sua schiava ed ogni manifestazione del pensiero, della religione, della stampa e della parola sarebbe costretta ad inchinarsi alla mercé dell’unico padrone. Arduo, in siffatto sistema economico, il poter immaginare che possa sopravvivere la libertà, eccetto che nel più intimo e nascosto pertugio delle singole coscienze.
All’altro estremo, la obbligatorietà che tutte le ricchezze, tutti i beni strumentali, tutti i mezzi di produzione siano posseduti unicamente dalla collettività statalizzata, è ugualmente fatale alla libertà. Tale impostazione presuppone che l’economia di un intero popolo sia regolata secondo un piano stabilito da un’autorità centrale, che tutto dispone e tutto controlla, al punto che una organizzazione statuale così pianificata trova la sua origine e la sua fine unicamente in se stessa.
L’unico elemento differenziale tra i due estremi andrebbe ricercato nel fatto che, nella ipotesi del monopolio privato, il profitto spetterebbe al monopolista laddove, nel caso del monopolio collettivistico o pubblico, lo stesso profitto apparterrebbe alla collettività statalizzata.
Farneticazioni utopiche o tristi realtà di passati appena trascorsi con residuali code nel presente storico?. Ogni risposta al quesito di cui sopra potrebbe essere valida se non fosse che, alla luce di quanto esposto, non si provvedesse all’abbattimento di una barriera, solo apparentemente, indistruttibile: quella rappresentata dal conformismo, ossia dalla schiavitù spirituale e dalla mancanza del bene supremo che è e resta la libertà.
I. Kant, in uno dei momenti più oscuri delle sue elaborazioni di pensiero, vedendo vanificarsi il suo sogno sfrenato di pervenire alla idealizzazione massima possibile del concetto di libertà, tristemente osò affermare: “L’essere umano aspira ad essere libero per praticare il male piuttosto che il bene”.
Il male, però, è negatore di libertà; il bene la esalta!.