Caro amico, questa settimana ti scrivo …
Franco Raimondo Barbabella
Caro amico, così ti rispondo …
Pier Luigi Leoni
Andare oltre le province. La Sicilia indica la strada, ma noi lo avevamo detto
“La Sicilia è la prima Regione in Italia ad abolire le Province. L’Assemblea regionale ha approvato un maxi-emendamento (Pd, Udc e Lista Crocetta) che cancella le elezioni e sostituisce i nove enti con liberi consorzi di comuni, come prevede lo statuto speciale, i cui componenti non saranno più eletti ma indicati dalle amministrazioni (elezione di secondo livello). Il governatore Rosario Crocetta ha accolto il voto d’aula (53 sì, 28 no) con un applauso. A favore hanno votato anche i deputati grillini, che parlano di vittoria del ‘modello Sicilia’, rilanciando dunque l’alleanza, non formale ma sui contenuti, che piace tanto al loro leader Beppe Grillo”. (notizia di RaiNews24 19.03.2013)
F. La notizia è di quelle che meritano attenzione anche da parte nostra, che viviamo in una regione a statuto ordinario, cioè senza i poteri dell’Ars, l’Assemblea regionale siciliana, una regione dunque che non potrebbe di sua volontà fare ciò che ha fatto la Sicilia. Eppure la cosa ci interessa, perché l’abolizione delle province per diverse ragioni è ormai diventata, oltre che test di una attendibile volontà riformatrice dei decisori politici, passaggio obbligato per una riforma organica dello Stato, dalla cui natura e qualità dipenderà il nostro futuro. Non si dica dunque che la questione non ci riguarda e non si dica nemmeno che non ci possiamo fare niente. Vediamo brevemente perché. La Sicilia può decidere da sola e l’Umbria no, perché, come per le altre regioni a statuto ordinario, c’è bisogno per questo di una legge costituzionale. Tuttavia, di fronte alle crescenti difficoltà del sistema istituzionale di dare risposte anche alle esigenze più elementari, non solo è d’obbligo la semplificazione e la sburocratizzazione, ciò che ogni regione può fare, ma è necessario far emergere subito una decisa volontà riformatrice regionale a tutti i livelli secondo un disegno e un progetto. Dunque basta con demagogiche e inconsistenti dichiarazioni, come basta con ossificate difese di un esistente che non si regge più in piedi, e basta inoltre con una classe dirigente cieca che parla di riforme senza nemmeno sapere il significato del termine, e che lascia così spazio ai riformatori del niente. Noi con il convegno “L’Umbria dopo l’Umbria” abbiamo posto il problema in tempi non sospetti e con taglio di sicuro coraggioso. Abbiamo detto: ragioniamo sulle riforme da fare subito e su quelle da impostare, perché altrimenti regioni come la nostra non ce la faranno a sostenere il peso della crisi e ne usciranno con le ossa rotte; al punto in cui siamo è semplicemente un inganno e una perdita di tempo disquisire sul riequilibrio tra le province da ottenere peraltro mediante il passaggio di territori da una provincia ad un’altra; le unioni dei comuni impostate in modo così confuso e timido non funzioneranno; bisogna invece pensare da subito all’abolizione delle province e istituire unioni di comuni sufficientemente ampie coincidenti con le cinque zone omogenee dell’Umbria, che possono dialogare, ciascuna e tutte insieme, con i territori delle altre regioni con lo sguardo rivolto a quell’Italia di mezzo che può essere la dimensione ottimale per un Paese da ricostruire su basi istituzionali solide per essere capace di competere sul serio in Europa e nel mondo globalizzato. Chissà, qualcuno si deciderà a muoversi prima che sia troppo tardi? O è già troppo tardi?
P. Discutere e approfondire, come fa il COVIP, è doveroso e indispensabile. Le idee sono alla base dell’azione politica, come di ogni attività umana. Ma nel passare dalle idee alla individuazione della strada migliore per cercare convergenze utili ad attuarle, non si può prescindere dalla realtà, in particolare dalla realtà giuridica, che pesa come un macigno. La costituzione è blindatissima, così l’hanno voluta i padri costituenti. Il suo adeguamento è sottoposto a un procedimento estremamente complicato. Ma c’è di più: le prospettive di modificazione della costituzione creano inquietudine nella pubblica opinione, che vede nella costituzione così com’è non un intralcio al funzionamento del sistema politico, ma la garanzia contro lo scollamento della nostra repubblica, percepita come una entità fragile. La memoria della guerra criminalmente intrapresa, maldestramente combattuta e rovinosamente perduta, nonché della dolorosa guerra civile, alimenta la paura dello sfascio. Lo dimostra il consenso che suscita ogni declamazione della nobiltà della nostra costituzione. Fino al punto che un comico genialmente retorico, Roberto Benigni, ha raccolto recentemente un consenso generale esaltando in televisione i primi 12 articoli che contengono i principi fondamentali della costituzione italiana. Eppure si tratta di enunciazioni di diritto naturale o di principi pressoché scontati che si trovano sparsi nella Carta dell’ONU e in tutte le costituzioni delle democrazie liberali. In questo clima si sputa ipocritamente sulla legge elettorale (senza decidersi a modificarla) ma quasi nessuno si preoccupa di quel cancro del nostro sistema politico che è il sistema bicamerale perfetto. La camera dei deputati è pletorica e quindi lenta e il senato, così com’è, fa solo danni. È probabile che, con le province, il parlamento si deciderà a fare quel che ha fatto in Sicilia l’assemblea regionale; ma quella della riduzione della spesa pubblica è una scusa, dato che il costo di tutti gli organi di governo di una provincia è pressappoco quello di un solo consigliere regionale. E dato che il personale delle province non si può mandare a casa se non eliminando le funzioni pubbliche che essi espletano. In Italia c’è un milione di dipendenti pubblici di troppo, quindi il problema della spesa per il personale pubblico non riguarda solo le province. Pure il sistema regionale deve essere riformato e rimodulato. In attesa che questi nodi vengano al pettine, si può fare quello che è possibile a costituzione invariata. Mentre la carretta che porta le province alla ghigliottina fa il suo percorso, si può lavorare in quei cinque territori omogenei di cui tu parli (io ne conto sei: Perugia, Terni, Spoleto, Foligno, Orvieto e Città di Castello) per realizzare le unioni speciali dei comuni e riempirle di contenuti. Sarei pessimista se non fossi convinto che stiamo toccando il fondo e che scavare sarebbe più faticoso che risalire.
La fine di ‘Umbria felix’
“In libreria “I padrini dell’Umbria. Il sistema di potere che controlla la regione”. Un’inchiesta di Claudio Lattanzi su chi comanda davvero in Umbria. … Questo libro analizza i meccanismi attraverso i quali il Pci-Pds-Pd, insieme agli alleati, ha realizzato un sistema di controllo che passa attraverso la gestione della sanità, la pianificazione urbanistica affidata nelle mani di un ristretto nucleo di costruttori, il ruolo dominante svolto dalla Lega delle cooperative ed una burocrazia elefantiaca. È un regime, alimentato da un sistema di spettatori complici e silenziosi, oggi sempre più in affanno a causa della crisi che riduce gli spazi di manovra del clientelismo e proietta ombre oscure sulla stessa tenuta economica dell’Umbria mentre sulla scena politica incalza il movimento di Grillo. Nella regione in cui 4 mila persone vivono di politica, dove molti organi di informazione sono sotto il controllo degli imprenditori cementieri ed i conflitti d’interesse sono ovunque, comandano poche centinaia di persone spesso collegate tra loro. … Una oligarchia immutabile che tenta di sopperire alla mancanza di un vero modello di sviluppo con assunzioni pubbliche e controllo urbanistico del territorio, in un’Umbria sempre più preda di campanilismi, criminalità e disagio sociale. E’ questa la vera eredità che un potere senza più ideali rischia di consegnare al futuro della regione”. (Notizia di Orvietonews 21.03.2013)
F. Io non so (non l’ho ancora letto) se questo libro di Lattanzi è stato costruito sulla base di ricerche originali e di prima mano e dunque se aggiunge qualcosa a quello che già si sa, oppure se si limita a proporre notizie e analisi scontate a supporto di un giudizio pregiudizialmente liquidatorio. Mi riservo di ritornarci con calma. So però che, indipendentemente da ciò che ha fatto e ha mosso Lattanzi, tutti gli indicatori e le ricerche recenti hanno smontato quell’idea di Umbria felix che la sua classe dirigente ha voluto a lungo accreditare e ha pervicacemente difeso fino a che la forza della realtà non è prevalsa. Restando alle ricerche più recenti, basti citare: il Rapporto sul Benessere equo e solidale di Istat e Cnel; il Rapporto Economico e Sociale (RES) 2012-13 realizzato dall’Agenzia Umbria Ricerche; il rapporto presentato lo scorso 15 marzo dal prof. Bruno Bracalente in occasione dell’incontro-dibattito “L’Umbria e l’istituzione della regione. Mutamenti sociali ed economici: valutazioni e prospettive” organizzato dall’associazione degli ex consiglieri regionali. Emerge la realtà di una regione profondamente debole sul piano economico e sociale, in difficoltà nella rete dei servizi, impreparata di fronte alle sfide di questa difficile fase storica. In realtà non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di leggere questi rapporti per rendersi conto di come siamo conciati, nelle maggiori città come nei paesi più periferici. De visu ci si rende conto infatti che cresce il numero dei fallimenti e dei disoccupati, che aumentano povertà e drammi familiari, si impoveriscono i ceti medi, i servizi sono sempre più in difficoltà, sulle strade si vedono solo buche, le manutenzioni quasi non esistono più, ecc. ecc. Ciò che non si vede e non si sente è una riflessione approfondita e onesta delle classi dirigenti locali e regionali sul perché si è arrivati a tanto e soprattutto su come ripartire cambiando sul serio. È vero che qualche brivido corre lungo la schiena di un po’ di gente quando ci sono drammi (e accade sempre più spesso) di droga o di furti e rapine o altro, fino agli accoltellamenti (è accaduto a Ponte San Giovanni, alle porte di Perugia), ma certo non basta questo. Diciamolo: è giunta davvero l’ora di uscire dalle dichiarazioni di circostanza, di scrollarsi di dosso pigrizia e acquiescenza e di organizzare con decisone i cambiamenti profondi delle linee di governo dei comuni e della regione.
P. La democrazia, come sappiamo bene, non è una macchina perfetta. Il sistema regionale fu inventato dai padri costituenti per smontare lo stato centralistico, che aveva facilitato l’instaurazione della dittatura da parte di Mussolini. Era bastato al Duce sostituire i prefetti monarchici con prefetti fascisti per controllare tutto il territorio nazionale. Perciò l’Italia doveva essere divisa in regioni e i prefetti dovevano essere eliminati. Era divenuto celebre l’articolo “via il prefetto!” che Luigi Einaudi aveva scritto nel 1944, quand’era rifugiato in Svizzera. Ma la democrazia cristiana e gli alleati, per paura dei comunisti, si guardarono bene, per un ventennio, dal fondare le regioni e dall’eliminare i prefetti. Fino a quando la opportunità di un compromesso coi comunisti per consolidare la democrazia consociativa (soluzione di ripiego quando non vi sono le condizioni per l’alternanza) convinse i partiti di governo a istituire le regioni e a lasciar sfogare l’egemonia comunista in buona parte dell’Italia centrale. Quel che è successo in Umbria è il danno procurato da una malattia della democrazia: il consociativismo. L’Umbria è una piaga e tale rimarrà fino a quando questo piccolo territorio messo insieme artificialmente non sarà assorbito in una macroregione (sia benedetta l’anima di Gianfranco Miglio!). Che poi la Massoneria sguazzi in Umbria e il Clero ci si trovi comodo non è un controsenso. È un gioco delle parti che ha fatto comodo a tanti, meno che al popolo italiano, che ne ha pagato il conto e che, anche per questo, si è dissanguato.
A Londra si parla di maiolica medievale orvietana. A Orvieto si dorme?
“A Londra si parla di Maiolica Medievale Orvietana. Una conferenza di Lucio Riccetti all’Istituto Italiano di Cultura. … Si parlerà della maiolica medievale di Orvieto il prossimo venerdì 22 marzo all’Istituto Italiano di Cultura a Londra e, più precisamente, di quello che fu il fermento di scavi e conseguentemente di vendite e di acquisti da parte del collezionismo inglese negli anni intorno alla Prima Guerra Mondiale. L’evento si situa nel centenario della morte di JP Morgan, banchiere e collezionista che, con il suo ammirato interesse per la maiolica medievale orvietana determinò, all’inizio del Novecento, anche l’interesse del mercato antiquario e un incremento del valore di questo tipo di manufatti”. (Laura Ricci)
F. Anche questa notizia è interessante, perché indica una costante della condizione della nostra città negli ultimi decenni, direi segnatamente dopo gli anni ’80 del novecento, cioè da quando iniziò una sistematica politica di lancio della città nel mondo nel quadro di una politica di sviluppo fondata sull’economia della cultura. Dico subito che ciò che fa Riccetti oggi è pregevole ed è in continuità con quanto ora ho ricordato, ma in questa circostanza vorrei metter l’accento su una questione più generale e più di fondo: la vera e propria schizofrenia che ci affligge con riferimento proprio alla notorietà delle nostre risorse e all’uso produttivo che se ne potrebbe fare. Con schizofrenia si indica la scissione dei processi mentali, cioè la mancanza da parte della mente umana della capacità di procedere in maniera lineare e coerente, con tutta una serie di gravi conseguenze. Ecco, noi rispetto alle nostre risorse (quelle culturali sono notevoli) siamo capaci di farci conoscere nel mondo, ma poi non facciamo, qui ed ora, quello che sarebbe necessario e possibile per trasformare la notorietà che abbiamo conquistato in ricchezza effettuale, fonte generatrice di reddito. Esempio più illuminante della ceramica medievale non ci potrebbe essere. Oltre trent’anni fa, nel quadro del Progetto Orvieto e in particolare di quella sua parte significativa che era il sistema musei, dagli studi e dagli stimoli di Alberto Satolli emerse l’idea di un museo della ceramica medievale che raccogliesse e valorizzasse il grande patrimonio esistente, in parte pubblico e in parte privato, in parte esposto e in parte nascosto, comunque disperso in troppi luoghi. Dopo trent’anni non siamo ancora giunti alla conclusione. Bisognerebbe scrivere questa lunga storia, e si capirebbe molto, io credo, delle dinamiche della città. In ogni caso resta sul tavolo il problema. E allora mi chiedo: che fine ha fatto quel progetto di musealizzazione che, dopo il restauro di Palazzo Simoncelli a tale scopo destinato, era arrivato anche al punto dell’attivazione di un finanziamento consistente per l’effettivo allestimento? C’è solo un problema finanziario?
P. Il museo della ceramica non si fa perché la comunità orvietana non è in grado di sostenere i costi della gestione. Credo invece che debba essere perseguita la realizzazione di un centro di documentazione e di ricerca sulla ceramica che possa autofinanziarsi per una quota consistente. Esiste, per esempio, un problema di datazione e di certificazione, da parte di laboratori attrezzati e di esperti della ceramica antica, medievale e rinascimentale. Così come esiste una evoluzione della ceramica contemporanea grazie allo studio di tecniche che le consentano di competere coi materiali moderni, se non altro sul piano dell’eleganza formale, grazie al fascino di un materiale che è antico quanto l’uomo. Ma il problema è più vasto ed è quello della cura e della valorizzazione dei giacimenti culturali. La nostra città è una miniera inesauribile. Altro che le improduttive miniere del Sulcis. Ma di questo dovremo parlare a lungo.