di Gianluca Foresi
Più di venti anni fa in un incontro fra operatori turistici e culturali orvietani, che già all’epoca si interrogavano sulla crisi ante litteram, affermai: “Il bene, ma allo stesso tempo la rovina, della nostra città può considerarsi il Duomo.” Il bene è sotto gli occhi di tutti: grazie a questo importante monumento della cristianità si è creato un indotto legato al turismo di enormi proporzioni, che ha permesso alla città di crescere, svilupparsi e mantenersi. Allo stesso tempo, e qui passiamo all’aspetto negativo, la presenza della cattedrale ha fatto sì che tutti quanti noi ci adagiassimo sull’idea che questa gallina dalle uova d’oro ci avrebbe fatto vivere di rendita. Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito ad un netto cambiamento nell’approccio all’opera d’arte : mentre in passato forte era il desiderio di rapportarsi in modo non mediato, e quindi fisico con il monumento, oggigiorno invece, in una società in cui le immagini corrono più veloci della vita e del pensiero, l’emozione è già stata sperimentato in modo asettico attraverso la tecnologia. Il “primo” incontro con l’opera d’arte è stato già esperito da un’altra parte, in un altro luogo. Questo è vero sia a livello nazionale, sia per una realtà locale come la nostra: Orvieto, seppur considerata un piccolo gioiello dell’arte, è calata in una dimensione minore rispetto a città come Roma, Firenze o Venezia, con le quali non può competere in termini di offerta. La stessa Assisi, per citare un esempio più simile a noi, è riuscita a creare attorno alla figura di S. Francesco e al suo santuario un indotto turistico di enorme livello. Ormai è obbligatorio pensare a nuove dinamiche per poter attrarre il visitatore e aggredire il mercato del turismo culturale. C’è bisogno di effettuare un operazione radicale, che può apparire aberrante parlando di arte e cultura, ovvero creare nel turista l’induzione al consumo. Da soli i monumenti non bastano più: bisogna vendere anche qualche cosa di diverso, usando anche modalità pubblicitarie più o meno subliminali. Come scientificamente analizzato da Vance Packard ne “I persuasori occulti”: sono all’opera forze, che convogliano le nostre abitudini inconsce, le nostre preferenze di consumatori, i nostri meccanismi mentali, ricorrendo a metodi presi in prestito dalla psichiatria e dalle scienze sociali. O per dirla con il filosofo e storico dell’arte Beat Wyss, citato dagli autori di Kulturinfarkt, : “ L’interesse principale del pubblico è quello dell’esserci stato, e gli oggetti artistici funzionano come reliquie, (o dico io come oggetti da possedere sia con lo sguardo che fisicamente), reliquie verso le quali si ricerca una vicinanza magica. La magia nasce dal trovarsi tutti insieme in un luogo o nell’avere quello che molti hanno: luoghi magici come Santiago de Compostela, o il Louvre”. Come creare questa magia? Dovremmo a mio avviso portare il turista a sentire una sorta di vuoto e rendere la meta turistica come l’oggetto che può riempirlo, un bene, una visita senza il quale non ci si senti parte del consorzio umano. Se prima i nostri splendidi monumenti bastavano a se stessi, adesso devono diventare la cornice “prestigiosa” di tutta una serie di stimoli mirati e indirizzati ad un pubblico di volta in volta selezionato: qualcosa ad Orvieto già c’è penso ad Umbria Jazz Winter, a quello che era Orvieto con Gusto che negli anni ha dimnuito il suo impatto e solo ora riprende a camminare lentamente e a Risate e risotti. Non bastano però.
Il discorso può sembrare crudo e poco elevato culturalmente, ma qui ormai non è più tempo di guardare alla distinzione fra cultura alta o bassa, a turismo di nicchia o di massa, qui è tempo di attrarre ed essere appetibili, se non si vuole finire per essere una bella addormentata nel bosco dell’inservibile elevatezza. Un’altra strada rispetto a quella delle iniziative mirate e tematiche potrebbe essere quella di rivitalizzare l’ampio parco museale di cui Orvieto gode: ad esempio con visite teatralizzate, itinerari offerti da guide e da attori che interpretano la storia dell’arte attraverso un narrazione svolta lungo il percorso di visita. Penso ad esempio anche ad una realtà alla quale sono legato culturalmente e professionalmente che è quella della rievocazione storica. Una miriade di piccoli paesi sparsi in tutto il territorio italiano ed estero è riuscita, attraverso la rivisitazione di periodi storici noti, legati al territorio, ad ottenere due risultati: far conoscere la propria realtà prima a più ignota, e calamitare di conseguenza migliaia di visitatori. Molti obietteranno che da quasi mezzo secolo esiste la rievocazione del Corpus Domini e che Orvieto è stata una delle prime a proporre eventi di questo tipo. Purtroppo però è ormai diventata l’ultima ad essere considerata meta per questo tipo di turismo (proprio perché ormai non è più l’unica ad offrire una proposta legata a questa tematica). Inoltre un rilancio energico della nostra città non può prescindere dall’uso di nuove forme pubblicitarie, come Twitter, Facebook, FourSquare, TripAdvisor. Da qui deriva la necessità di una nuova alfabetizzazione multimediale dell’amministrazione, degli uffici competenti e, last but not least, dell’Ufficio turistico. Inoltre anche noi semplici cittadini con questi mezzi possiamo diventare promotori sponsor della nostra città. In ultimo, il discorso più delicato: quello dei finanziamenti necessari alla realizzazione dei progetti. Come ebbe a dire Tremonti “La cultura non si mangia”, però con la cultura ci si può mangiare. Importante è però allontanarci dal vecchio schema dei soli finanziamenti statali, sebbene sia convinto che lo stato debba essere vicino economicamente alla crescita culturale del paese. Voglio citare di nuovo un passo Kulturinfarkt: “Si è pensato che la crisi della cultura sia una crisi dei finanziamenti, come stagnazione o calo degli incentivi statali, il problema è che il modo in cui sono organizzate le attività culturali pubbliche non è più all’altezza delle nuove sfide. In moltissime istituzioni culturali si persegue ormai soltanto la gestione di ciò che esiste. La politica culturale è sempre meno in grado di promuovere i cambiamenti, perché vuole mantenere un numero durevole e crescente di strutture solide con bilanci in continuo calo. Si concentra sulla conservazione di ciò che esiste e così fa in modo che le istituzioni culturali pubbliche restino indietro rispetto alla concorrenza privata.” Così come il rischio di non sopravvivere, proprio delle imprese private, le obbliga a rivolgere l’attenzione ai consumatori e a rinnovarsi di continuo, al contrario gli incentivi statali non espongono le istituzioni culturali ad una sana concorrenza. Necessario è ripensare le forme di finanziamento, considerando anche la possibilità di rivolgersi a privati, in un contesto di neo-mecenatismo. Mi vengono in mente i fratelli Della Valle, con il Colosseo o Brunello Cucinelli, che ha sovvenzionato il restauro dell’arco etrusco di Perugia e che a Solomeo sponsorizza una manifestazione storico-enogastronomica e ha addirittura realizzato un teatro. Con questo non voglio aprire alla privatizzazione della cultura, ma anche qui ad Orvieto dovremmo far capire ai privati che investire nella cultura non vuol dire sperperare o spendere inutilmente il proprio denaro, ma significa invece veicolare in maniera innovativa l’immagine del proprio prodotto e contestualmente offrire nuove opportunità di crescita e di sviluppo alla città. Per concludere vorrei ricordare che Orvieto non è senza dubbio una meta turistica per tutti, ma non intende lasciare fuori nessuno è cosmopolita aperta alla cultura e alle culture ma è anche cosmo-pulita, aperta a chi apprezza la genuinità di certi luoghi. In essa dovranno essere armonicamente fuse arte e storia e innovazione e presente, quelle si rivolgono a ciò che siamo stati, queste a quello che dovremo cercare di essere. A questo può servire una rivitalizzazione delle politiche culturali che doneranno nuova linfa alla cultura della politica).
Non so se, come scrisse Dostoevskij, la bellezza, leggi cultura, salverà il mondo, ma potrebbe salvare Orvieto e l’Italia.