Caro amico, questa settimana ti scrivo …
Franco Raimondo Barbabella
Caro amico, così ti rispondo …
Pier Luigi Leoni
Uscire dalla crisi si può. Ma basta pigrizia intellettuale!
“Molti anni fa nacque un pensiero contrario all’evoluzione tecnologica perché privava l’uomo del suo lavoro manuale; pensiero perdente perché non si può fermare il progresso, soprattutto in un mondo globalizzato. D’altro canto è stato stimato che negli USA, da quando è stato spinto il processo di informatizzazione (1995), si è osservato l’aumento della produttività del 2,5 – 3% l’anno con lo stesso numero di lavoratori, ossia è aumentata la ricchezza prodotta col 2 – 3% di lavoratori in meno. Cosa fare? Osserviamo cosa fanno gli altri. La Corea del Sud, superata la fase critica mondiale del 2008, è portata ad esempio per la strategia di uscita dalla crisi, per aver investito nell’istruzione, investimenti, stimoli fiscali, favorito i consumi, aumentata la spesa pubblica e svalutazione (30%) e, soprattutto con l’innovazione, ponendosi all’avanguardia per numero di brevetti. Sapremo noi fare qualcosa di simile, noi che riusciamo a spendere a malapena il 10% dei fondi europei assegnati? Sapremo scrollarci di dosso incrostazioni, falsi problemi, bagarre per la gestione di poltrone che ci condannano all’immobilismo? Non abbiamo più molto tempo a disposizione e vorrei poter dare risposte ai miei nipotini che stanno crescendo”. (Natale Caronia)
F. Mi è piaciuto questo intervento di Natale Caronia, pubblicato recentemente in Liquida, perché ha il coraggio di mettere il dito almeno in una delle nostre piaghe, l’ostilità preconcetta nei confronti della tecnologia, che poi si sposa anche, se non con un’ostilità irrazionale, certamente con una pigra indifferenza verso la cultura scientifica. L’idea che sia la tecnologia a provocare disoccupazione non è certo nuova. Basti il richiamo al luddismo, fenomeno di protesta operaia degli inizi del XIX° secolo conseguente all’espansione della prima rivoluzione industriale: le macchine (il telaio meccanico) erano viste come il nemico che provocava disoccupazione e povertà, ed erano perciò da distruggere. Oggi quante sono le occasioni in cui si può verificare che si pensa che sia la tecnologia e non le sue modalità d’uso a provocare problemi e danni? L’idea dunque non è nuova, ma resta pur sempre primitiva, frutto di paura e pregiudizio, cioè d’incapacità ad accettare le novità e di essere aperti al mondo. L’esempio della Corea del Sud è calzante, ma ci sono anche altri esempi, compresi ovviamente quelli di India e Cina, che dimostrano che la tradizione può benissimo convivere con la modernizzazione, e si può andare avanti come treni, pur con spesso gravi contraddizioni. La cosa che stupisce è che non ci si rende ancora conto che conservare l’inconservabile è ciò che produce davvero problemi, disoccupazione e povertà. Con questa questione credo però che bisognerà fare i conti in ogni angolo del nostro Paese, e dunque anche qui da noi, dove mi pare che su ogni scelta pesino visioni ristrette e incapacità di accettare non tanto la logica della modernità, quanto spesso semplicemente la logica. Se, come ha ricordato Maurizio Ricci in un suo recente articolo, sono stati necessari ottomila anni per passare dalla rivoluzione agricola a quella industriale, centoventi per l’invenzione della lampadina, novanta per l’atterraggio sulla luna, ventidue per inventare internet, e nove per leggere la sequenza del genoma, l’accelerazione delle scoperte utili all’umanità dovrebbe costringere tutti a scrollarsi di dosso incrostazioni culturali e pigrizie intellettuali. Chissà che allora anche dalle nostre parti non possa accadere qualcosa di buono in tal senso!
P. Abbiamo paura della tecnica perché abbiamo paura di noi stessi. Sappiamo che con la tecnica, se fossimo santi, potremmo fare miracoli. Ma, poiché santi non siamo, possiamo utilizzare la tecnica per coltivare i nostri vizi e sfogare i nostri odi. Le condizioni del nostro pianeta stanno diventando critiche dal punto di vista ambientale e le armi di distruzione di massa stanno proliferando. Non si tratta solo delle bombe nucleari, ma anche delle armi batteriologiche. Quando gl’invasati disposti a perdere la vita per sterminare il prossimo saranno in grado di passare dagli esplosivi ai virus, li adopereranno per scatenare pandemie letali. Ci salverà la cultura? I giovanotti che diressero gli aerei sulle torri gemelle non erano degli ignoranti, avevano coltivato studi superiori e sapevano guidare grandi aerei a reazione. Con tutto il rispetto per la cultura, la scienza, la politica illuminata, gli USA, l’Unione Europea e i Paesi emergenti dell’Asia e dell’America Latina, credo che abbiamo urgente bisogno di Grandi Maestri, quelli disposti a pronunciare autorevolmente parole di vita, di pace e d’amore. Quelli che, quando sono comparsi su questa terra li abbiamo ammazzati e cerchiamo di dimenticarne gli insegnamenti. La vedrei brutta se dipendesse solo dagli uomini.
Cultura e turismo, le nostre miniere d’oro
L’Italia è buon gusto, è arte e ambiente, è cibo e vino, è moda e cultura del buon vivere. È un insieme immensamente ricco, attraente e unico. Ovunque l’Italia è bellezza. Dobbiamo difendere e valorizzare questo nostro patrimonio fatto di luoghi e di persone capaci di accogliere. Sono convinto che l’ospitalità di qualità e la cura del buon vivere siano premessa strategica e al tempo stesso motore per il rilancio economico del paese. … È necessario che la politica si impegni a cancellare privative, interferenze normative, sovrapposizione di competenze, indebiti gravami e quant’altro si frappone al rilancio delle nostre autentiche qualità convinto come sono che l’Italia e i suoi abitanti sono la risorsa migliore, il fattore di produzione distintivo e realmente competitivo su cui puntare. La cultura, i luoghi, i musei, le bellezze naturali e paesaggistiche, i monumenti, sono i principali generatori della nostra economia, producono valore diretto e aggiungono valore ai nostri prodotti. La cultura non è un settore dell’economia bensì la più potente delle infrastrutture italiane. È la fibra, il filato attraverso il quale connettiamo e innerviamo tutto ciò che produciamo, dalle merci all’ospitalità. La cultura è il fattore di produzione distintivo e realmente competitivo su cui puntare per far uscire l’Italia dal declino.
Il turismo mette a valore tutto ciò che è espressione del territorio. Non si importa né si impianta, si sviluppa nei territori con il concorso di chi ci vive e ci lavora e dove vivono bene gli abitanti stanno bene anche i viaggiatori. Il turismo è un’economia del movimento e delle relazioni, che produce esperienza e significati, che genera valore e ricchezza. Oggi, grazie alla rete e ai social network, il cambiamento nel modo di viaggiare, riavvicina il viaggiatore all’esperienza più naturale e analogica del viaggio: interagire con i territori e le persone che vi si incontrano. (Stefano Ceci)
F. Ci vuole poco a convincersi che le cose stanno effettivamente così. Eppure è difficile trovare, sia a livello nazionale che nelle regioni e nei comuni, una cultura di governo e amministrativa che sia chiaramente leggibile in questa direzione. Nonostante ciò, e nonostante che neanche la campagna elettorale che si sta concludendo abbia rappresentato l’occasione per una conversione della politica all’accettazione di questa verità elementare (anche se in realtà è tale solo apparentemente), io propendo per la fiducia che sia la brutale realtà a spingere a compiere questo passaggio decisivo. Il turismo e la cultura non sono solo ristoranti e alberghi con l’aggiunta di qualche manifestazione. Sono invece una politica complessiva, politica a tutto tondo: beni e attività culturali, strutture ricettive e di accoglienza, enogastronomia, cura e valorizzazione dell’ambiente storico e naturale, iniziativa pubblica e privata, capacità organizzativa, visione larga e rapporti vasti, ecc. ecc. Mi rendo conto che ci vuole una classe dirigente, in particolare politica, adeguata a questa che si presenta ed è una vera e propria rivoluzione culturale. E non è facile che venga fuori. Però non è impossibile. Il passaggio di fase va fatto comunque anche qui da noi, soprattutto nel senso di abbandonare atteggiamenti e sforzi spesso solo parolai per concentrarsi su un progetto vasto, ambizioso, lungimirante, di trasformazione delle nostre risorse in opportunità di crescita forte e stabile. Siccome si può, si deve. Ne abbiamo le condizioni. Non nonostante la crisi, ma proprio perché c’è la crisi e perché dalla crisi si può uscire.
P. Parole sante. Ho l’impressione che, nonostante tutto, stiano aumentando gli italiani consapevoli delle prospettive di vita migliore che offrono i nostri eccezionali giacimenti culturali. Non mancano meritorie associazioni culturali e ambientaliste, ma occorre che esse approfondiscano la loro cultura economica. E devo dire che la legislazione italiana ha fatto dei passi in avanti, per esempio con la promozione delle attività commerciali nei musei. Se abbiamo il dovere, nei confronti dell’umanità, di tutelare e conservare i nostri beni culturali e ambientali, abbiamo anche il diritto-dovere di valorizzarli economicamente per creare lavoro e reddito. È questo un tema che dovrebbe essere al centro della competizione elettorale in tutti i comuni italiani, a cominciare dalla nostra Orvieto. Questa presa di coscienza può essere agevolata dal fatto che, come giustamente rilevi, non c’è altro modo per uscire dalla crisi.
Strane cose accadono in questo nostro strano mondo!
“Promosso dal Consiglio d’Europa, nell’ambito del Programma “Itinerari culturali europei”, si è riunito martedì 19 febbraio a Venezia il Coordinamento del Progetto della Via Teutonica, antica via di pellegrinaggio che, transitando per il Brennero e Venezia e, per quanto riguarda il nostro territorio, Orvieto e l’Orvietano, conduceva i fedeli dalla Germania sino a Roma. Il progetto si inserisce nel quadro della valorizzazione delle “Vie Romee”. … La Provincia di Terni, già fortemente impegnata nel progetto in stretto collegamento con la Fondazione Cassa di risparmio di Orvieto, ha confermato la disponibilità a figurare tra i promotori dell’iniziativa”. (OrvietoSi)
F. Tutti sapevamo che la Provincia di Terni era stata condannata a morte (con dispiacere o no non importa) e che era solo in attesa dell’esecuzione della sentenza dopo le elezioni. Alcuni amministratori erano tornati al loro lavoro, altri stavano cercando soluzioni, altri ancora attendevano gli eventi. Ma insomma, il destino sembrava segnato. E tutto, in attesa, sembrava dormire. D’altronde come sempre, se si considerano i numerosi problemi non affrontati o non risolti. E invece no, ecco il guizzo, “la disponibilità a figurare tra i promotori dell’iniziativa” della riscoperta della Via Teutonica. Da sottolineare: “la disponibilità a figurare”. Non c’è alcun dubbio, questo dimostra che quel provvedimento di soppressione era del tutto sbagliato!
P. Ebbi modo di occuparmi professionalmente delle forti iniziative che le regioni Lazio e Toscana assunsero vari anni fa per la valorizzazione della via Francigena. Ricordo quel periodo come il trionfo del pressappochismo nelle indagini e nelle progettazioni, dell’incoscienza nella messa a disposizione dei fondi pubblici e di un battage pubblicitario molto sproporzionato alla sostanza. Però mi sorprese l’interesse che la riscoperta dei grandi itinerari medievali suscitava nei popoli europei. Potenza della storia e delle tradizioni! Fu così che quasi ogni regione andò alla ricerca di un itinerario medievale da valorizzare, anche forzando notevolmente la storia. La disponibilità dell’agonizzante provincia di Terni a darsi da fare per la valorizzazione della via Teutonica farebbe tenerezza, se non rivelasse la speranza che un governo debole rianimi quella figlia del Fascismo nata male e vissuta peggio.