Alcuni mesi orsono, redassi un articolo giornalistico avente a tema il valore etico fondamentale e vitale per ogni umana esistenza, quale è il lavoro, e sostenni la irrinunciabile necessità che, per rifondare su basi più avanzate di giustizia e di uguaglianza nella libertà la democrazia della società italiana, l’unica via da percorrere fosse quella della riqualificazione morale e politica delle arti, dei mestieri e delle attività professionali nelle loro più ampie articolazioni.
Mi era sembrato di aver esperito un’analisi compiuta e completa o quasi; poi, la recente lettura di una dichiarazione rilasciata da un giovane tunisino, profugo in Italia, mi ha aperto nuovamente gli occhi e condotto a superiori e più approfondite riflessioni.
Detto giovane ha lapidariamente sostenuto che in Tunisia sotto la dittatura, prima dei moti rivoluzionari datati duemilaundici, era lecito e consentito non altro se non che studiare e lavorare quando, al contrario, ogni diversa e libera iniziativa personale veniva negata e repressa con la sola eccezione dell’inconculcabile, platonico “dialogo silenzioso dell’anima con se stessa”.
Di certo, trattavasi di uno studiare e di un lavorare altamente spersonalizzanti poiché i totalitarismi, nel pieno della loro furia liberticida, approdano sempre e soltanto ad un lido funesto: bandiscono le differenze. Tutto ciò è talmente vero al punto che non può rappresentare, per nessuna ragione al mondo, un ideale perseguibile quello che distrugge e annienta le inviolabili identità personali e le libere volontà individuali.
Non era possibile non reagire di fronte a tali concettualità e la spinta reattiva è stata veemente, per determinati aspetti forse inimmaginabile e, non da ultimo, diametralmente opposta a quella che ci si poteva attendere. Per gesto di ironia variegata da venature di sarcasmo, la mia indignazione per la ridicola teatralità tragicomica, nella quale l’amato “Bel Paese” ha deciso di calarsi, si è accesa allorquando ho intuito la portata storica del dovermi confrontare con il seguente assunto: nella dittatura tunisina, come anche in ogni altra dittatura, si studiava e si lavorava mentre tutto il resto era precluso; nella nostra democrazia sembra che tutto sia lecito e permesso fuorché studiare e lavorare.
E’, allora, forse preferibile un governo tirannico che impone lo studio obbligato e il lavoro forzoso piuttosto di uno, formalmente democratico, che non ne offra la libera possibilità?.
Il ragionamento è ovviamente assurdo e paradossale; è però, contestualmente e al tempo stesso, emblematico e metaforicamente rappresentativo dell’attuale, triste ed allarmante, condizione socio-politica italiana. Volutamente e consapevolmente si sta distruggendo il sistema scolastico e universitario, sia concretamente attraverso tagli finanziari indiscriminati a lama affilata e a cagione dell’approvazione di una riforma che ne ha snaturato la sua originaria funzione costituzionale immiserendolo, e sia per infondate e surreali insinuazioni che assomigliano spesso e volentieri a vere e proprie calunnie da parte di chi, pur rivestendo ruoli di primaria responsabilità, non conosce nulla o quasi dei reali ambienti dell’istruzione formativa non vivendoli direttamente e, quindi, non immedesimandosi in essi. E il distacco paranoico e progressivo dalla realtà è quanto di più inquietante e pernicioso che possa esistere.
Alla stessa stregua viene ormai valutato il lavoro, bistrattato e vilipeso: è praticamente introvabile e, se per ventura lo si rintraccia, assume novanta su cento la connotazione di una squalificata dequalificazione; non è più avvertito come un dovere, un diritto e un valore ma, sia detto senza offesa, aleggia come un incubo permanente essendo divenuto l’ossessione dei disoccupati e l’amarezza di coloro che, a stento, “vivacchiano”, non sentendosi ricompensati da una mercede affatto remunerativa in termini di soddisfazione materiale e di realizzazione personale.
Il disagio sociale è evidente e diffuso, ma ognuno lo vive “uti singulus” dalla propria prospettiva egocentrica; divisi come non mai, immersi nel loro non sempre cosciente egoismo e individualismo, i potenziali prestatori d’opera cantano stonati le note disarmoniche di un cantico intriso di rabbia, di denuncia e, purtroppo, perfino di autocommiserazione.
Non da così scissi e pervicacemente isolati dal contesto comunitario che si può affrontare e vincere la sfida, ma uniti in un coro concorde e globale di vociante e vibrante protesta.