di Mario Tiberi
Nonostante tutto, nonostante i tempi aspri e angustianti, nonostante le umane relazioni improntate più allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo che alla concordia solidaristica, si può essere ancora felici ed è imperativo etico tendere ad esserlo.
La felicità, però, rimane avvolta nell’aurea della chimera utopica se non ci si adopera, con ogni energia intellettuale, per addivenire alla sua conoscenza maggiore possibile. Mai, infatti, si è troppo giovani o troppo vecchi per conoscerla a fondo; a qualsiasi età, del resto, è avvincente e doveroso occuparsi del benessere del corpo e, parimenti e soprattutto, di quello dell’anima.
Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza della felicità, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse predicando che non ci sarà mai un’epoca della propria vita per essere felici, o che ormai è passata l’età. Ed è così che risulta profondamente giusto, sia da fanciulli come da anziani, che ci si dedichi a conoscere la felicità per sentirsi sempre giovani, quando si sarà avanti negli anni in virtù del dolce ricordo di essa vissuta in passato e, nella verde età, per prepararsi a non temere l’avvenire.
In primo luogo, per non temere il futuro, bisogna non temere la morte ed, anzi, l’accettare serenamente la misteriosa signora dal mantello nero, l’imparare a prendere confidenza con le sue movenze e la sua personalità escatologica, il convincersi che la sua più intima essenza è ciò che di più naturale vi sia, allevierà il pensiero ossessivo di lei, getterà luce nel buio dell’ignoto e, infine, le renderà giustizia. E’, infatti, da tutti ritenuta come il nemico per eccellenza e il peggiore di tutti i mali, mentre nessuno la conosce per davvero quando potrebbe anche essere il migliore di tutti i beni; e voler giudicare per ignoranza ciò che non si conosce è immorale ed ingiusto.
Per secondo, vanno considerate in somma misura l’indipendenza e la libertà dai bisogni materiali, non perché ci si debba sempre accontentare del poco, ma per assaporare fino in fondo il gusto anche del poco quando non ci è concesso in sorte di poter aspirare ad avere di più. In fin dei conti, ciò che veramente serve, e cioè l’essenziale e il necessario, non è difficile a trovarsi mentre l’inutile, e cioè il superfluo e il voluttuario, richiede grande dispendio di sforzi per misere briciole.
Per essere prima sereni e poi felici, va ingaggiata gagliarda e vigorosa “singolar tenzone”: quella contro l’ansia e l’apprensione derivanti dall’avido accumulo fine a se stesso.
Da ultimo, principio e bene supremo per una esistenza felice è l’intelligenza, madre di tutte le virtù terrene. Codesta ci sostiene e ci aiuta a comprendere che non può essere vissuta una vita felice senza che sia, essa stessa, intelligente, esteticamente leggiadra e moralmente giusta come non può esistere vita intelligente, leggiadra e giusta se priva di felicità perché le virtù, tutte le virtù, sono connaturate alla gioia di vivere e da questa inseparabili.
E’ meglio essere saggi che fortunati e stolti e, nella pratica del quotidiano, è preferibile che un ben congegnato progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato.
Allora è da ricercare, con pazienza e tenacia, che le prospettive infauste decadano: felicità potrà essere una società dove gli ultimi non restino sempre tali, dove i governi siano all’altezza dei compiti loro assegnati, dove all’arroganza e alla superbia dei rozzi potenti sia sostituita la mitezza e l’umanità dei saggi intelligenti.
Tutto ciò a cominciare dal basso e dal circoscritto, perché per noi comuni cittadini è concausa di infelicità la costrizione di una rappresentanza politica e istituzionale che avvertiamo, ogni giorno di più, mille miglia lontana dal nostro sentire e, dunque, caduca e prossima alla fine.
Al contrario, “non sembra più nemmeno mortale l’uomo che vive fra beni immortali”. (Lettera a Meneceo, cpv XXIV).