Erano i primi anni Cinquanta del secolo scorso. Il Parroco del mio paese ci portò in gita a Orvieto. Eravamo in cinquanta, praticamente tutti gli scolari della quarta e quinta elementare maschili. Tutti battezzati, comunicati e cresimati, tutti iscritti all’Azione Cattolica. Bestemmiavamo come carrettieri, senza però farci sentire dal Parroco. Poi glielo confessavamo e lui ci faceva recitare l’atto di dolore, ci comminava tre pateravegloria e ci assolveva. A Orvieto il Duomo non m’impressionò, forse perché ero già stato a Roma e probabilmente perché non avevo ancora l’età adatta. M’impressionò invece la stazione di Orvieto vista dai giardini comunali. Ebbi la sensazione di vedere il mondo dall’aeroplano, come avevo sognato, ma non avevo ancora provato. Quella minuscola città con la stazione, la ferrovia, la poche case senza pretese e la funicolare mi rimase nella mente e nel cuore.
Ogni tanto ritorno ai giardini comunali e guardo la stazione e tutto il resto. Per mettere da parte l’amarezza che mi dà lo scempio del paesaggio e l’oltraggio a ogni logica, mi concentro sulla palazzina della stazione e ne gusto il decoro, la proporzione e l’eleganza.
L’alluvione ha rispettato la stazione e la minuscola città che serbo tra i bei ricordi.