A quasi due mesi dall’alluvione di Orvieto, dopo aver tanto ascoltato e letto su cosa è e cosa non è stato fatto, cosa si dovrebbe e cosa non si dovrebbe fare, voglio esprimere qualche riflessione che spero possa arricchire la discussione nel merito. E magari seminare qualche piccolo granello di dubbio, o informazione “alternativa”, nel mare di certezze fin qui emerse.
Innanzitutto penso sia bene sapere che un fiume, ogni fiume, non può essere considerato come un elemento isolato e a sé stante su cui agire autonomamente. E ciò sia perché ogni tratto di fiume è strettamente e intimamente connesso al più ampio ambito di territorio che in esso drena (il “bacino idrografico”), sia perché su di esso si riflettono azioni ed eventi che riguardano la rete dei suoi tributari a monte, così
come esso stesso ha influenza su ciò che è posto a valle, fino alla foce o alla confluenza in un corso d’acqua più grande.
E’ a partire da considerazioni simili che, fin dagli anni ’80, in ambito tecnico e legislativo si è sempre più cercato di ragionare e pianificare in termini di aree vaste, i bacini appunto, evitando l’improvvisazione degli interventi puntiformi.
Un fiume poi, abbandonati a monte i caratteri torrentizi e quindi nel tratto intermedio del suo corso (quale può essere quello del Paglia tra Allerona Scalo e Orvieto), ha una dinamica naturale legata al suo scorrere. Un andamento spesso sinuoso e meandriforme, un tracciato a tratti ramificato e ricco di barre, isolotti, rivoli e greti sassosi su entrambe le sponde.
Il percorso abituale è disegnato nel cosiddetto letto ordinario, una sezione fluviale ribassata e scavata, all’interno di un vasto tavolato di materiali alluvionali (ciottoli, sabbie e limi) che ricopre spazi pianeggianti molto più estesi fino al limitare dei colli circostanti. Questi spazi ne definiscono il letto di inondazione.
Quando, dopo un periodo di piogge intense e prolungate nel bacino, il fiume è in piena, l’acqua supera gli argini del letto ordinario e può spandersi libera per decine o centinaia di metri ricoprendo le pianure del letto di inondazione a destra e a sinistra. Nel momento in cui l’acqua si ritira, a seconda delle maggiori o minori condizioni locali di velocità della piena, lascia sul terreno nuovi strati sedimentari di ghiaie, sabbie o limi, ad arricchire il tavolato. E’ in questo modo che, attraverso secoli e millenni, piena dopo piena il fiume letteralmente “costruisce” la sua preziosa pianura alluvionale.
In quest’ottica, ogni evento di piena, anche il più violento, non può e non deve essere interpretato come una catastrofe. E’ semplicemente un fatto naturale, come un arcobaleno che nasce nel cielo dopo la pioggia, l’emergere di un pulcino da un uovo o lo sbocciare di un fiore in primavera.
Anzi, nella visione utilitaristico-consumistica dell’uomo è addirittura un fatto utile. Perché l’estrazione degli abbondantissimi inerti alluvionali trasportati e depositati dal fiume diventa risorsa preziosa per l’industria delle costruzioni. Perché nelle zone ampie e pianeggianti di fondovalle si possono insediare comodamente molte attività e abitazioni. Perché nelle alluvioni di pianura scorrono quasi sempre, a pochissima profondità, ricche falde idriche sub alvee facilmente captabili e utilizzabili.
Chiediamoci allora: quando è che la piena diventa catastrofe? Lo diventa quando una pianificazione miope, speculativa o guidata da scarse conoscenze, consente l’azzardo di costruire là dove forse non si deve osare. Lo diventa quando si perde la memoria dei luoghi e ne viene meno l’identità. Lo diventa quando, per “spendere i fondi”, si continuano a realizzare interventi che prescindono dalla conoscenza approfondita della complessità sistemica del fiume e dell’intima interconnessione fra i diversi spazi lungo il suo corso.
Lo può diventare ancora di più quando, nell’emozione post traumatica del dopo alluvione, per mettere in sicurezza manufatti e attività e ristabilire il primato dell’uomo sulla natura ostile si invocano indiscriminati e semplicistici interventi a pioggia come arginature artificiali, tagli radicali di vegetazione ripariale o escavazioni in alveo.
Veniamo allo specifico della situazione orvietana. E’ evidente che adesso, in queste precise condizioni strutturali e infrastrutturali, il sistema di sicurezza fluviale è localmente fragilissimo e alcuni urgenti interventi tampone di risagomatura e piccola arginatura delle sponde sono imprescindibili per evitare problemi con le prossime piene. Ma poi, prima di procedere a lavori massicci, è veramente auspicabile il concorso di più menti e professionalità, supportate da un backgruond politico capace di scelte coraggiose, con l’obiettivo di elaborare una vision e un piano strategico. Un piano che possa pure prevedere ulteriori interventi laddove strettamente necessario, ma che sia anche in grado di individuare aree, opere e manufatti realisticamente non difendibili dalle piene eccezionali e che non possono altro che essere delocalizzati altrove, immaginando forme di indennizzo per i costi di spostamento e demolizione. Un’iniziativa che, per evitarne altri, abbia l’onestà intellettuale di riconoscere gli errori del passato e la loro influenza sul presente.
Me ne viene in mente uno fra i tanti: le recenti aree di espansione e completamento urbanistico poste ai due lati della Umbro Casentinese fra il ponte sul Chiani e la Svolta. Poco dopo la loro costruzione, per metterle in sicurezza, oltre ad altri interventi sono stati costruiti dei costosi argini che il 12 novembre hanno svolto egregiamente il loro compito, contribuendo però probabilmente, per quanto in piccola misura, alla maggiore quantità e velocità della piena più a valle. Un altro errore in cui sembra si stia “diabolicamente” perseverando è l’ostinazione con cui proseguono i lavori di realizzazione del nuovo centro commerciale su via Costanzi.
Mi piacerebbe infine spendere qualche parola sulle tanto odiate alberature fluviali, da alcuni individuate come il principale ostacolo al veloce e indolore deflusso delle piene (!). Si tratta di fasce naturali di alberi amanti dell’umidità (per lo più salici, pioppi e ontani) che arricchiscono il paesaggio definendo visivamente, da lontano, il percorso dei fiumi. In alcuni casi, quando la vegetazione colonizza il greto fluviale, possono essere abbastanza spesse e giungere a formare dei veri e propri boschetti. Molti ritengono che dovrebbero essere eliminate per rendere le sponde più dritte e “pulite”, riducendo in tal modo il fenomeno dello sradicamento dei tronchi che poi vengono portati via dalla corrente (come se fosse questo l’unico problema delle grandi piene). In realtà questi preziosi elementi dovrebbero invece essere difesi perché contribuiscono con la loro presenza a rendere le rive fluviali più articolate e complesse e con ciò non solo rallentano la corrente disinnescandone il potere distruttivo, ma con le loro radici consolidano il terreno evitandone o riducendone l’erosione. Inoltre le fasce ripariali, come tutte le siepi naturali, hanno una fondamentale funzione ombreggiante e frangivento e costituiscono importanti “corridoi ecologici” per tante specie di animali legate ai fiumi. Forse accanirsi contro la vegetazione fluviale può apparire la soluzione più immediata ad un problema complesso e multifattoriale. Ma abbiamo ormai il dovere di procedere senza emotività e seguendo il principio di precauzione.
A supporto di quanto sostenuto allego qualche immagine della penultima piena del novembre 2010 a Orvieto in cui si vede chiaramente la funzione di rallentamento della corrente esercitata dalle piante presso le sponde. Aggiungo inoltre una foto recentissima, presa dalla Rocca, della confluenza Chiani – Paglia da cui, anche solo visivamente, si può intuire come il denudamento delle fasce ripariali (in questo caso “naturale” in quanto dovuto all’ultima piena) abbia reso più fragili i sistemi spondali. Data la particolare geometria dell’immissione, senza sistemi di rallentamento e difesa qualsiasi portata un po’ più sostenuta del Chiani potrà erodere il sottile setto di separazione e colmare l’ormai ex laghetto del parco urbano con migliaia di metri cubi di acqua e fango.