Uno torna in una trattoria che era quasi di campagna e si accorge di quanto il tempo ha saputo correre, invece di trascorrere. Allora dicevamo andiamo dalla Mora, e non ricordo se quel nome stesse a segnalare la presenza di una donna dai capelli corvini. Si andava dalla Mora a mangiare, come si andava a bere alla Torretta quando era governata dal greco misterioso, che aveva, diceva lui, conosciuto mio padre in qualche guerra. A quel tempola Moraera la sola trattoria per chi voleva dire sono stato a pranzo fuori, Ora la strada per Viterbo è costellata di ristoranti, non puoi chiamarli trattorie. Anche Vincenzo ha lasciato la cucina medievale e serve carne, le bistecche per far dimenticare il Conte. Ma non voglio divagare, con i ricordi bisogna essere precisi. Andavamo dalla Mora da studenti squattrinati, in dieci stipati in una Topolino. Andavamo nelle sere d’estate, mangiavamo all’aperto su certe panche scomode che ci sembravano poltrone frau. Non avevamo il sedere delicato dei bamboccioni o degli sfigati, per dirla alla Fornero. Ricordo la cucina semplice, tanto semplice che uno si chiedeva perché non sono rimasto a mangiare a casa. Ma il bello era proprio quello, mangiavi dalla Mora come mangiassi a casa, ma intorno razzolavano galline spensierate, ignare del futuro che le avrebbe viste lesse a fare il brodo. Sulla strada passavano poche auto,la Tuscianuova non era nata, quella vecchia la ricordava soltanto qualche storico locale. Ogni tanto qualche Vespa, qualche Lambretta: erano i temerari che si avventavano al lago di Bolsena. quando Bolsena non era stata occupata dai dai romantici tedeschi.
E nel silenzio davvero campestre,la Morarisuonava delle nostre battute caserecce, ironia da caserma, benedetta ironia fatta a stornello. Ricordo che eravamo comunisti, questo per dire quanto tempo è passato: oggi la parola comunista la trovi solo nella Crusca, è fuori moda, e se digiti comunista su google non trovi nulla. Internet non conosce l’Internazionale. Cristo, quanto divago, sarà qualche capello bianco che intralcia il mio stile, in genere conciso, come i discorsi di Concina. Torno dunque alla Mora: esiste ancora, lo so perché ci sono stato a pranzo la settimana scorsa, in vena di ricordi. Le panche esistono ancora anche loro, e si respira aria di trattoria, come a qui tempi. Ma dentro di tutto è diverso, tavoli prenotati, un’eleganza senza fronzoli, la carta dei vini e del dessert: tutta roba che a quei tempi solo al ristorante Morino. Ho provato a raccontare a chi era con me la vecchia Mora. volevo buttarla sul nostalgico/ patetico. Poi ho scoperto che ora come allora puoi mangiare fagioli con le cotiche, bere vino sfuso da bottiglie senza etichetta. E puoi gustare dolci fatti in casa, con il gusto antico. Altro segno di quanto sia passato il tempo sta nel fatto che tra i commensali sono pochi i camionisti, per i qualila Moraera tappa fissa quando per andare a Viterbo due ore non bastavano, e Roma era lontana come oggi, per dire, Sidney. Qualche camionista a dire il vero lo trovi ancora, ma deve essere per una specie di passaparola tra generazioni.La Mora: se dico questo nome non penso, no, ad una donna magari formosa e campagnola, penso a quella vecchia trattoria che esiste ancora, e resta trattoria dei ricordi, anche se adesso è vestita da ristorante Ma se ci penso bene, le mura sono sempre quelle, screpolate forse per astuzia, per catturare gli antichi avventori come me. Ho provato, anche, a parlare di comunismo ai miei commensali, mi hanno guardato come si guarda un amico un po’ rincoglionito. Poi tutti di nuovo ingordi di fagioli con le cotiche, di agnello alla brace come era alla brace allora, e di agnello che non è gatto. Mi scuseranno i miei trentacinque lettori, che magari mi avranno dato per sparito, non avendo più letto le mie nostalgie. Mi scuseranno se non parlo di politica o non commemoro qualche amico morto. Mi scuseranno se dico loro che quel tornare alla Mora mi ha fatto tornare indietro di anni, a quando non conoscevo la parola depressione. Il padrone della trattoria doveva aver sentito parlare di me da qualche suo avo, perché si è meravigliato, quando mi ha chiesto quale vino volessi, e gli ho risposto che non bevo. In altri tempi, in quel luogo pieno di ricordi, ma anche sempre attuale, avrei detto: oste portace ‘n artro litro. Cristo, quanto tempo è passato, magari oggi se lo chiamo oste si incazza. Eppurela Moraresta semprela Mora; anche se io da moro sono diventato grigio.
Forse ci torno presto, il camino di allora è sempre acceso. Al diavolo l’aria condizionata, al diavolo il mio presente condizionato da tristezze normali, troppo normali per essere tristezze. Cristo, come vorrei scaldarmi al camino grande della Mora, avendo accanto una mora, una bionda, una castana: ed in mano un bicchiere di vino rosso invecchiato nel tufo.