Il denaro, in una società a prevalente profilo consumistico, sembra essere il motore di ogni agire umano e, spesso stoltamente, viene scambiato da strumento di intermediazione per il soddisfacimento dei bisogni materiali a fine ultimo dell’esistenza terrena. Si dice, a questo proposito, che i soldi non hanno paternità o padronanza e che mammona, il dio quattrino, è un idolo ingannevole e tentatore di cui è bene usufruirne con circospezione e notevole moderazione.
Oggi, poi, con la finanza creativa, gli investimenti remunerativi, le speculazioni monetarie, i guadagni facili e immediati promessi da promotori spregiudicati e senza scrupoli, il concetto di denaro si è talmente amplificato da vederne snaturato il suo valore originario ed essenziale.
Quanto esposto vale certamente nella sfera privata: trova però in quella pubblica il terreno di maggiore e più pericolosa esplicazione. Una non oculata e responsabile gestione delle risorse finanziarie destinate a beni e servizi di pubblica utilità o interesse conduce, in un breve arco temporale e inevitabilmente, a fallimenti clamorosi e per lo più ignorati ed ignoti fino al momento dell’ormai “è troppo tardi”.
Da universitario, erano gli anni settanta, terminata la lezione pomeridiana di filosofia giuridica mi incamminai, in compagnia del Prof. Sergio Cotta, verso piazzale della Minerva, dea della sapienza, e durante il percorso iniziammo a dissertare sulle lusinghe e sulle seduzioni del potere derivante dal denaro e, di converso, sulla dimensione della felicità umana. Per quel che ricordo, mi proverò a riassumere sinteticamente i passaggi più significativi di tale conversazione.
L’uomo, per sua intima natura, è portato a vivere felicemente; senonché è talmente abile a complicarsi la vita da renderla, spesso e volentieri, insopportabile e insoddisfacente in quanto alla radice di ogni suo male vi sono l’avidità e la cupidigia dell’uomo stesso. Affinando ulteriormente il pensiero di partenza, ci si rese ben presto conto che l’avidità e la cupidigia altro non sono che le figlie naturali di un’unica grande madre: l’incontentabilità umana.
Proseguimmo nel ragionamento: una volta affrancati dalla schiavitù del bisogno e raggiunti sufficienti livelli di benessere materiale all’interno dei quali è possibile soddisfare le necessità primarie e in parte anche quelle voluttuarie, perché ostinarsi e dannarsi l’anima per continuare sulla strada dell’avido accumulo quando, poi, tutto dovremo restituire?. Soddisfare le esigenze fondamentali e irrinunciabili è logico e razionale; l’altro è frutto di un meccanismo perverso e irrazionale e, quindi, è sciocco e insensato.
Nella sostanza, il desiderio smodato dell’uomo di possedere sempre di più è paragonabile ad un cinodromo dove i cani si cimentano nella rincorsa di una lepre meccanica che, una volta che è stata raggiunta, ottiene una improvvisa e decisa accelerazione per cui i cani sono costretti ad aumentare anch’essi la loro velocità di corsa per raggiungerla di nuovo e, così, all’infinito. E aumenta la velocità oggi, aumenta la velocità domani, l’affanno della corsa verso il maggior possesso diventa sempre più sostenuto e l’affanno è la negazione della serenità esistenziale e la mancanza di serenità è la causa primaria dell’infelicità dell’uomo. La conclusione finale può condensarsi nella seguente apodittica affermazione: incontentabilità uguale infelicità.
Un’ultima metafora per meglio precisare: il pilota di una vettura e il suo motore sono assimilabili alla mente e al cuore dell’essere umano e per raggiungere determinati obiettivi ottimali devono per forza integrarsi l’una all’altro in giuste proporzioni. La mente potrebbe però, in determinate e ripetute circostanze, chiedere troppo al proprio motore fino a portarlo alla rottura e a fermarsi: essere ovverosia incontentabile. D’altro canto, un motore che si arresta a causa dell’incontentabilità del pilota rende quest’ultimo infelice poiché non gli consente di perseguire il traguardo che si era prefissato.
Il pilota se la prenderà allora con il suo motore, lo manderà a quel paese, ci litigherà perché non sarà tanto onesto da ammettere che la causa del suo male, dell’infelicità cioè derivante dal mancato raggiungimento dell’obiettivo, la deve proprio ed unicamente ricercare in se stesso.