Mio padre era un servitore dello Stato, che ha vissuto un’odissea in cui è stata sprofondata anche la sua famiglia e che ha pagato con la vita la propria dedizione al Paese.
Sono passati esattamente dieci anni dalla scomparsa di Stefano Melone, il primo militare italiano per il cui decesso cui un tribunale abbia riconosciuto quale causa il contatto con l’uranio impoverito.
L’anniversario della sua morte è la triste occasione per ricordare l’esempio di un militare che, dopo aver compiuto il proprio dovere, si è trovato ad affrontare un percorso durissimo. “Stefano Melone era veterano delle missioni di pace all’estero(Albania 1991,Somalia 1994,Libano 1996,Kosovo 1999) come specialista capoveivolo elicotterista con il grado di maresciallo capo facente parte del Primo reggimento Antares in stanza a Viterbo.
Al ritorno dal Kosovo gli venne diagnosticata una rara forma di cancro che lo porta alla morte nel 2001. Inizialmente, secondo i medici, la causa era riconducibile all’esposizione a sostanze radioattive e cancerogene a cui era stato esposto in Kosovo maneggiando il benzene, l’amianto e il cloruro di vinile per la manutenzione delle armi. Col passare dei mesi si manifestò invece il sospetto che la causa della sua malattia potesse essere di quelle armi all’uranio impoverito utilizzate durante il conflitto in Bosnia. I coniugi Melone, Stefano e Paola, passarono da una clinica privata all’altra a proprie spese, finché i medici dell’Istituto nazionale dei Tumori di Milano gli diagnosticarono una neoplasia maligna causata dall’inalazione di sostanze tossiche. Era troppo tardi. Stefano morì durante il ricovero l’8 novembre del 2001. Nell’aprile del 2005 la Corte d’Appello riconosce il danno biologico e concede il risarcimento alla famiglia. E’ stato il primo militare in Italia a cui viene riconosciuto il nesso fra malattia e uranio impoverito ed un cittadino orvietano di cui andare fieri.