Dopo la pioggia rispunta il sole si dovrebbe dire e invece no, purtroppo sono solo nuvole, nuvole nere di responsabilità che giunti a questo punto si potrebbero enumerare a dismisura. Appare talmente grande il danno provocato dalla due giorni di intense perturbazioni che rimane difficile a chiunque, a qualsiasi cittadino credere che sia stato fatto tutto il necessario per evitare il disastro.
Il Fiume Paglia noi lo conosciamo bene, sappiamo che le sue piene sono molto pericolose, perché ha un bacino ridotto ma che in breve tempo può accumulare e concentrare enormi quantità di acqua. Il regime semi-torrentizio del fiume non è una favola è una realtà ben presente anche nella memoria dei nostri vecchi. 1937, 1960 e 1965 e molte altre date, impresse nella mente di molti cittadini e all’epoca come ora le stesse conseguenze. Il fiume che non riesce a defluire sul suo consueto letto di piena ed occupa la sua piana alluvionale. Sì, la sua piana, perché è sua non nostra, come molti hanno creduto per lungo e troppo tempo. Il Paglia come qualsiasi altro fiume ha bisogno dei suoi spazi. Questa volta ha ribadito le gerarchie sulla gestione del territorio e non possiamo negare che ci aveva ampiamente avvisato.
Chi ancora sostiene che bisogna imbrigliare il fiume dentro argini stretti e vuoti come autostrade, non ha capito nulla del valore e dell’importanza di certi fenomeni naturali e del funzionamento idraulico dei corsi d’acqua. L’episodio meteorologico è stato eccezionale. Piancastagnaio ha accumulato più di 330 mm di pioggia, Allerona più di 280 mm, Monte Rufeno addirittura 450 mm, quasi la metà delle precipitazioni di un anno. La quantità d’acqua venuta giù in 36 ore in tutto il bacino del Paglia, dall’Amiata alla confluenza col Tevere non poteva che defluire ampliando ed allargando il suo corso. Le opere di spianamento, di approfondimento degli alvei, l’apertura di vie dirette e longilinee, la risistemazione degli argini e delle sponde, degli ultimi 10 anni, non sono serviti assolutamente a nulla, anzi, in certi casi potrebbero aver aumentato la furia delle acque e la formazione di picchi di piena eccezionali. E’ il caso ad esempio dei torrenti dell’alta valle come la Quinta luna, lo Stridolone e il Tirolle, dove le opere eseguite a valle comprendenti il taglio raso della vegetazione ripariale, non hanno in alcun modo inciso sulla laminazione della piena. E non sono mancati i danni: in primis quelli al Ponte Gregoriano che ha costretto la chiusura della Statale Cassia e poi quelli al ponte Cahen, di recente ricostruzione, travolto inesorabilmente. Per non parlare della Val di Chiana, da Chiusi a Fabro, dove la rete dei canali, ampiamente rimodellati con continue e ingenti risorse pubbliche investite, è saltata completamente portando ad allagamenti diffusi su tutta la piana, compresa l’Autostrada A1.
Non si può chiudere il fiume in una scatola, è una insolente pretesa o un’ illusoria convinzione da parte di chi sottovaluta o non valuta affatto l’importanza che rivestono gli elementi naturali nella gestione del territorio. Tra questi purtroppo molti amministratori. Sembra ovvio dirlo ora che il danno è fatto ma la realtà era purtroppo sotto gli occhi di tutti, già da prima.
Aver costruito importanti centri scolastici, commerciali, industriali, residenziali a ridosso del fiume tra Orvieto Scalo e Ciconia, aver permesso l’espansione edilizia in prossimità del Chiani a La Svolta, aver autorizzato la realizzazione di piccole e grandi opere, strade, stalloni, case, canili, nelle immediate vicinanze del fiume, ma soprattutto aver fatto tutto questo senza lasciare adeguato spazio ad un fiume periodicamente irrequieto e pericoloso e non aver previsto misure di difesa passiva nei punti ormai divenuti critici per tali politiche miopi, sono le più gravi responsabilità che chi ha buon giudizio saprà facilmente attribuire.
La scure purtroppo cade un po’ ovunque e non è nostra intenzione farlo per puro desiderio di polemica ma per convinzione che altro si poteva fare e si dovrà fare. Uno degli Enti che deve fare molta autocritica è il Consorzio di bonifica Val di Paglia e Val di Chiana romana. Il caso di Allerona è emblematico. Qui il Consorzio aveva già programmato tutto, i soldi erano già stanziati da tempo, non c’era che da approfittare delle calde ed asciutte prime giornate di autunno per intervenire in prossimità della strada provinciale che da Allerona Scalo conduce ad Orvieto per rinforzare la difesa passiva esistente e realizzare un fossato di guardia a fianco. E invece hanno atteso questo fatale novembre, un mese che già nel 2010 ci aveva regalato intense piogge, che avevano provocato l’esondazione del fiume alla confluenza col Torrente Rivarcale, un punto in cui il Paglia passa da un meandro ad un altro e dove con facilità esce dal suo alveo tagliando diritto fino a ritrovare il suo corso all’altezza del ponte della ferrovia Roma-Firenze. In mezzo vigne e ancora vigne, ma anche stalle, un molino e poco distante il centro abitato, che cresce rosicchiando pezzi alla campagna e al fiume. La settimana scorsa intempestivamente il Consorzio di bonifica ha avuto pure la buona idea di rimuovere la difesa esistente per ricostruirla più forte e funzionale. Peccato che non lo abbia fatto prima del danno. Viti spezzate e una ragazza che imprigionata nella sua auto per poco ci rimetteva la pelle.
Consorzi, Comuni, Province, Regioni, a ciascuno la sua responsabilità, che non possiamo però non vedere, alla base, nella carenza di idee politiche facenti tesoro di tutte conoscenze fin qui acquisite ma anche dell’esperienza e la memoria storica, in certi casi millenaria, sviluppata su queste terre.
La politica conta in questa ennesima storia di devastazione. Una politica che non riesce più a capire il territorio ad occuparsi della sua cura e che abdica e demanda il proprio ruolo regolatore a singole e tardive soluzioni tecnicistiche, spesso collegate ad interessi particolari.
Alla radice di tutti i problemi la gestione di un vasto territorio, collinare e montano, quello delle valli del Paglia e del Chiani così come quello del Fiora, dell’Albegna, dell’Orcia, del Nestore e di tutti gli altri bacini e sottobacini, dove si sono registrati un po’ ovunque numerose frane, smottamenti, allagamenti e generalizzati fenomeni erosivi. Una gestione del territorio che non ha più tra i suoi principali artefici la figura dell’agricoltore, esempio fino al primo dopoguerra di custode del paesaggio e del territorio, ed oggi purtroppo divenuto l’ultima ruota del carro, un insignificante coltivatore depresso che rinuncia alla proprie spontanee funzioni a servizio della comunità, compresa quella di regolatore delle acque, attraverso il mantenimento dei rivoli e dei fossi che scorrono lungo i campi.
E’ la speculazione piuttosto a governare, quella illegale degli abusivismi ma anche quella che paventa sui piani regolatori fantomatici villaggi turistici in mezzo a campi destinati all’erosione perpetua. Un terreno frutta più per quello che c’è costruito sopra che per quello che vi viene e come vi viene coltivato.
Ma la politica dello sfruttamento ha le gambe corte, porta benefici momentanei ma non a lungo raggio. Lo abbiamo visto bene, questa volta, sulla nostra pelle.
Un’altra lezione da non dimenticare.