In questi giorni i giornali, nazionali e locali, sono pieni di articoli sulla crisi del regionalismo e del federalismo all’italiana, esplosa con virulenza con le vicende della Lombardia, della Sicilia, e soprattutto del Lazio, ma in realtà latente da tempo a seguito della riforma del Titolo V° Cost. nel 2001 e alimentata da ultimo dai riflessi locali della crisi economico-finanziaria.
In questo quadro, l’articolo che il Direttore Giuseppe Castellini ha pubblicato lo scorso 4 ottobre sul suo giornale con il titolo “Una regione che deve cambiare, ma non scomparire” merita il massimo di attenzione perché va al cuore del problema, che è appunto il destino stesso dell’Umbria.
Castellini ha ragione a sostenere che la storia del regionalismo umbro non è il romanzo di un fallimento, sia sul piano della politica economica che su quello della rete dei servizi. E aggiungerei, anche dei valori democratici e del clima civile. Tuttavia, se è vero che quel tanto di positivo che c’è stato e che in parte ancora resiste alle intemperie ha avuto la sua base in un originario patto per lo sviluppo fondato sullo scambio tra aiuto alle imprese mediante contenimento dei salari e aiuto ai lavoratori mediante fornitura di una buona rete di servizi sociali, va anche detto che oggi quello scambio è finito ed è impossibile pensarne la possibilità di riproporlo anche solo come strategia di contenimento della crisi.
Dunque, se si discute anche in Umbria di superamento del regionalismo per come lo abbiamo conosciuto in questi quarant’anni, è perché i rivolgimenti che stiamo vivendo richiedono, direi oggettivamente, di guadagnare nuovi orizzonti in cui collocare le scelte di riforma alle quali siamo chiamati proprio per non soccombere, appunto per non sciupare il buono che abbiamo conquistato con sacrificio. E’ per questo che parlare di macroregione del Centro o dell’Italia mediana non deve essere ritenuto né un delitto né una fuga in avanti azzardata e pericolosa, ma al contrario una possibilità intelligente e un’opportunità da utilizzare da parte di classi dirigenti con lo sguardo lungo. Certo nei modi e nei tempi necessari.
Infatti, se l’orizzonte generale non può che essere la costruzione dell’unità politica dell’Europa, quello locale e regionale non può rimanere fermo allo spezzatino istituzionale e al particolarismo, che non solo impediscono qualsiasi politica di un certo respiro ma rischiano di negare persino la possibilità di sussistenza al sistema delle città e dei territori. Non solo non ci sono più le risorse, ma è diventata incompatibile con la realtà, con la logica stessa del governare, la sfibrante lotta di partiti e gruppi e persone per un potere svuotato di contenuti. Basti pensare a come è stata affrontata la questione delle province: pur di mantenerne due si vorrebbe fare oggi quel riequilibrio che non si è voluto fare da trent’anni a questa parte. E come ieri però, anche oggi la domanda centrale non è quale assetto istituzionale può essere più funzionale allo sviluppo e al futuro di tutta la regione, ma quale equilibrio stabilire tra Terni e Perugia, da ottenere peraltro con un assurdo trasferimento di territori da una parte all’altra.
Queste discussioni in realtà sono devianti, tengono bloccate le dinamiche regionali, generano ritardi, e con ciò alla fine rischiano di fare danni sia al tessuto economico e sociale che alla capacità di tenuta del tessuto culturale e civile. Senza esagerare d’accordo, senza accelerare d’accordo, ma va detto che l’Umbria così com’è non può reggere: le sfide sono troppo grandi e la massa critica è troppo esigua. La questione del superamento, da una parte di microformazioni regionali, e dall’altra di polverizzazioni istituzionali subregionali, si pone dunque ormai non come ingenua poetica della semplificazione, ma come adesione al brutale realismo del buonsenso. Inoltre, i temi concretissimi che spingono verso politiche interregionali coordinate in modo strutturale, cioè non improvvisato e provvisorio, sono diversi e anche Castellini ne elenca alcuni tra i più importanti: il Centro estero per le imprese, la gestione delle risorse idriche, la gestione del ciclo dei rifiuti. Se ne devono aggiungere anche altri: la sanità, la scuola, la cultura e il turismo, le infrastrutture. Naturalmente nulla è semplice e nulla può essere fatto con superficialità, e perciò nemmeno con la fretta di fare per apparire. Però bisogna cominciare, approntare le carte nautiche, disegnare la rotta e organizzare il cantiere.
Ad Orvieto il prossimo 19 ottobre, per iniziativa del COVIP (Centro Orvietano di Vita Politica), si terrà un’iniziativa per ragionare di queste cose. Non è un caso che questa esigenza sia particolarmente sentita in un territorio come quello orvietano, da sempre interessato a intessere rapporti interregionali in direzione sia dell’Alto Lazio che della Bassa Toscana. Ma lo stesso interesse lo hanno tutti i territori posti al confine con altre regioni. Pertanto il problema in discussione non si tradurrà in una qualche rivendicazione egoistica e particolaristica, quanto piuttosto nella proposta di una nuova prospettiva generale, che vuole essere un valido contributo per il futuro dell’Umbria, di tutta l’Umbria, con tutte le differenze da intendere come risorsa. In sostanza riteniamo che si debba porre con chiarezza e urgenza la questione del superamento contemporaneo di centralismo e campanilismo, non con la riproposizione di un falso e stanco policentrismo, ma con un nuovo assetto imperniato sul ruolo dei territori e lo sviluppo di una politica di ponti plurimi con le regioni confinanti, mettendo in gioco le potenzialità delle aree cerniera.
Ecco dunque la domanda cruciale: riorganizziamo il passato o prepariamo con coraggio il futuro? Per come stanno andando le cose, non mi pare si tratti di una domanda retorica.