Il federalismo non è mai nato, né mai nascerà poiché già superato dal corso degli eventi; in satirico compenso il regionalismo agonizza, il provincialismo si consuma da se stesso giorno dopo giorno e i Comuni, unici Enti autarchici territoriali che abbiano consolidata attinenza con la storia d’Italia, sono sulla soglia di molteplici “bancherotte”. Il lato negativo è piuttosto evidente; quello positivo consiste nel fatto che si possono e si debbono recidere le spese infondate e pleonastiche di codeste “matriosche” amministrative, rendendo così meno penosa la vita dei cittadini e probabilmente più agevole quella delle imprese.
Sulle Province, tutti credono di conoscere la ricetta risolutiva: sopprimerle. Se ne discute da quarant’anni, cioè da quando furono istituite le Regioni, e nel frattempo invece di diminuire sono aumentate. Nonostante ciò, la realtà è che esse rappresentano il problema minore, benché il più inguardabile. Sopprimendole si risparmierebbe relativamente poco, in termini di spesa pubblica, ma si opererebbe desiderata pulizia estetica.
Le Province vanno chiuse certamente, mentre l’ipotesi di accorparne alcune tra di loro è sciocca, inutile e altamente costosa e complicata. Il fallimento “maximo”, però, non è quello delle Province, bensì quello delle Regioni. Sanità, trasporti, smaltimento dei rifiuti, sono solo tre comparti sui quali il regionalismo è fallimentare ove si tenga a mente che, al netto della spesa pensionistica, i trasferimenti di denaro dallo Stato centrale agli Enti locali assorbono il 65% della spesa pubblica complessiva. Stiamo quindi parlando di un capitolo imponente.
In detta quota di finanza statale, che a fiumi discende vorticosa verso gli Enti intermedi, è già racchiuso il fallimento delle autonomie locali. Nessuno può essere autonomo se non autosufficiente.
Difatti nessuno lo è poiché, paradossalmente, il desiderio di far coincidere le mani di chi tassa con quelle di chi spende, entrambe mani politiche, e in modo che vi sia responsabilità concorrente per scelte compiute o da compiere, è rimasto tale: un pio ed astratto desiderio.
In queste condizioni i necessari tagli della spesa pubblica, se non vogliamo che s’abbattano solo sui servizi da rendere ai cittadini, devono chiudere la stagione dell’agonia istituzionale nell’estremo tentativo di salvare il salvabile e gettare via il molto del marcio. Le Regioni hanno fallito anche perché si pretende da esse che siano tutte uguali nel loro funzionamento, non tenendo conto della enorme differenza esistente tra quelle con meno di un milione di abitanti e quelle con oltre i cinque milioni. Non solo, poi, uguali tra di loro ma, danno su danno, replicanti medesime funzioni statuali.
A ciò si è aggiunta la sciagurata riforma del Titolo Quinto della Costituzione, quella risalente a undici anni orsono, messa in atto da un governo di centrosinistra sempre pronto ad affermare chela Costituzionestessa non si tocca e, per l’invece, tritarla in ragione circostanziale di concorrenza propagandistica alla Lega-Nord.
Ora, avvedutisi del madornale errore, si tenta di tornare indietro con il DDL governativo della scorsa settimana, ma non è con la “politica del gambero” che si aiuta il nostro popolo a fare decisivi passi in avanti.
Il risultato, all’opposto, è l’eclissi dell’interesse nazionale, senza che sia nata alcuna identità regionale. Ritengo che non vi sia un solo italiano che si senta nel suo profondo appartenente ad una regione, mentre tutti sono strettamente legati alla propria città. Nessuno va in Veneto o in Calabria, semmai a Padova o sulla Sila.
Ebbene, siccome le risorse scarseggiano, è ora di accantonare per sempre le idee inutilmente costose, conservando solo quel che di positivo vi era nella originaria formulazione prospettica di sistema federalista dello Stato: la sussidiarietà, l’idea cioè che l’Ente territoriale superiore non debba espletare quel che può realizzare l’Ente gerarchicamente inferiore e che lo Stato, nelle sue varie articolazioni, non debba intervenire in quel che il libero mercato sa e può da se stesso regolamentare. In questo senso non sono affatto un liberista, ma un sincero “liberal”.
I Comuni sono, e non è un caso, l’unico esempio di legge elettorale che sembra aver funzionato, stabilendo un rapporto diretto tra amministratori, in special modo il Sindaco, e amministrati. Purtroppo, però, proprio i tagli lineari della spesa pubblica hanno portato sul lastrico i Comuni stessi, la cui promessa capacità impositiva è stata nei fatti tradita ed usurpata dallo Stato centrale.
Qui si deve invertire la rotta, consegnando maggiore potere all’autonomia. Dove, invece, i Comuni debbono dimagrire, e non è almeno in parte il caso di Orvieto, è nel settore delle “partecipate”, in quegli animali misti nei quali si attraggono capitali privati, si assegnano compiti pubblici e si conservano maggioranze societarie in mano alle giunte comunali. Per garantire, ad esempio, la pulizia della città non solo il Sindaco non deve essere il proprietario dell’azienda di nettezza urbana, ma gli viene meglio esserne l’esigente cliente.
Su codesta strada tendenzialmente virtuosa, vi è però un macigno vizioso: la dissennata concezione accentratrice della politica che vuole tutto sotto controllo e che tutto, quindi, resti nelle mani dei politici, o sedicenti tali, con il solo effetto di aver così generato il fenomeno che va sotto il nome di “Antipolitica”.
Concludo, affermando che rivedere la struttura di governo degli Enti locali può portare non solamente a consistenti risparmi, ma può liberare la imprenditorialità delle imprese e i cittadini tutti da amministrazioni che, non avendo altro da fare, si inventano competenze ed obblighi con i quali non si tutela nulla, ma si rende tutto più lungo, più lento, più oneroso e, come se non bastasse, anche e spesso e volentieri più sudicio.