Al fine di meglio precisare i lineamenti dottrinari sul fallimento politico del regionalismo, così come è stato attuato e condotto per oltre otto lustri, avverto il dovere necessitato di ritornare in argomento con specifici riferimenti alla diretta chiamata in causa:la Regionedell’Umbria.
Chi abbia letto il precedente editoriale a mia firma, potrebbe aver pensato che chi Vi scrive auspicasse una abolizione “senza appelli” degli Enti Regionali. Così non è; ed è, invece, per fugare ogni fuorviante falsa interpretazione che mi accingo a redigere quanto andrete a leggere.
Regionare, neologismo di odierno conio uscito di getto dalla mia penna onomaturgica, ha il significato di puntualizzare con estrema precisione il ruolo politico e la funzione pubblica chela CostituzioneRepubblicanaassegna alle singole Regioni d’Italia, nell’ambito dell’ordinamento giuridico nazionale e di quello più ampio dell’Europa comunitaria.
La nostra Regione, l’Umbria, è certamente, per ragioni demografiche e non solo, una realtà minore e da alcuni politologi considerata così “Cenerentola” tanto da prevederne una sua cancellazione dalle tavole geografiche; a codesti alcuni, forse sventati o alquanto distratti, è d’obbligo rispondere che è stata la storia ad attribuire all’Umbria la rappresentanza di una centralità pulsante di civiltà, come lo è il cuore per l’organismo umano, e alla storia non ci si può ovviamente opporre.
Semmai, il ragionamento che intendo sviluppare va spostato su altri versanti e primo, fra tutti, quello di una saggia e ben ponderata riforma degli assetti di governo regionale ad ampio raggio e da attuare nel contesto di una pacificamente rivoluzionaria e del tutto innovativa strategia geopolitica che ridisegni confini, competenze e funzioni.
In quest’ottica, obiettivamente, non esiste più spazio per l’obsoleta suddivisione del territorio nazionale in Province con la presenza, al loro interno, di enti intermedi di primo e secondo grado che, spesso, altro non sono se non dei doppioni l’uno dell’altro. Se non ha più sensola Provinciadi Terni, non lo ha nemmeno una Provincia di Perugia allargata a tutta la superficie regionale perché sarebbe solo una fotocopia sbiadita dell’Ente Regione. E così via per tutte le altre Province d’Italia.
Discorso diverso è da farsi per i Comuni, tutti indistintamente e nessuno escluso, nemmeno per il più remoto o per quello più ridotto per dimensioni. Il Comune, come entità politico-istituzionale e come cellula di base della società complessivamente considerata, ha una sua ragion d’essere in se stesso e autogiustifica la sua presenza nello scenario della vita pubblica contemporanea per il solo fatto di essere da sempre esistito.
Certo necessiterà di aggiornamenti tra i quali, in primo luogo, una impostazione consortile che lo porti ad associare i servizi da rendere alle comunità amministrate in unione con altri Comuni omogenei per tradizioni storiche, culturali, etniche, economiche, sociali e politiche anche oltre gli stessi confini regionali di appartenenza. Non più, dunque, una verticalizzazione dei poteri esecutivi, ma una linea orizzontale dei medesimi che passi per un equilibrio di pesi e contrappesi tra il governo nazionale, a sua volta coordinato con le direttive della Comunità Europea, e quelli delle Regioni e delle Unioni Comunali come sopra descritte.
Nel particolare,la Regionedell’Umbria, anche dopo il varo della cosiddetta “Riforma Endoregionale”, insufficiente e per versi non secondari ancorché contraddittoria, non potrà non tener conto del riposizionamento congiunturale di molti dei suoi comprensori ad iniziare, proprio, da quello orvietano. Nonostante la nostra collocazione strategica fungente da collegamento auto-ferroviario tra Nord e Sud, nel corso ormai di decenni il governo regionale non ha saputo valorizzare appieno detta potenzialità e, così, non solo ha precluso il nostro sviluppo ma, aspetto ancor più grave, lo sviluppo stesso della intera Regione.
Non vi sono altre vie d’uscita: bisogna necessariamente cambiare marcia e, per cambiare marcia, occorre mutare mentalità e cultura di governo.
Non da oggi mi vado sempre più convincendo che le carte vincenti di Orvieto e del suo circondario siano riposte nel Turismo, nella Innovazione e nella Cultura (TIC) le quali, accoppiate al più datato TAC (Turismo, Ambiente, Cultura), possono rimettere all’ora esatta il TIC-TAC dell’orologio della nostra storia millenaria. Basterà volerlo!.
Un esempio concreto, a tal proposito, ci viene dalle travagliate vicende della Caserma Piave. Non se ne è fatto ancora nulla perché, invece di progettare una riconversione a fini civili in funzione degli interessi generali della città, si è pensato stolidamente che potesse accadere il contrario e, cioè, che la città si dovesse sottomettere alle esigenze particolari e contingenti di un indecifrabile riuso della ex area militare.
Cosa voglio dire e concludo: voglio dire che, se non si apriranno spazi nuovi per nuove idee e nuove intuizioni, potremo sì dilettarci in animate discussioni, ma non concluderemo mai nulla di pregnante e di concretamente significativo per l’avvenire, prossimo o più distanziato che sia.
E ciò, sia in ragioni di tangibili realizzazioni pratiche che in quelle più prettamente estetiche e morali.