“Dal mondo chiuso all’universo infinito” è il titolo italiano del bel libro con cui più di cinquant’anni fa Alexandre Koyré proponeva al grande pubblico le sue riflessioni sulle conseguenze culturali della rivoluzione copernicana avvenuta quattro secoli prima. Oggi quel libro andrebbe riproposto per una lettura attenta alle nostre classi dirigenti, che in generale mi pare non abbiano ben presenti quelle conseguenze, se è vero com’è vero che il timbro delle discussioni sulla crisi epocale che viviamo e sulle riforme da fare, soprattutto sul piano istituzionale, appare essere quello del mondo chiuso che non c’è più e non quello del mondo infinito che invece c’è, quel mondo la cui porta ci fu appunto socchiusa quattro secoli e mezzo fa dall’astronomo polacco Niccolò Copernico (“De revolutionibus orbium coelestium”, 1543) e spalancata poi pochi decenni più tardi dal filosofo nolano Giordano Bruno (“De l’Infinito, universo e mondi”, 1584). Da allora l’universo non può non essere concepito che come decentrato, infinitamente popolato, variegato e plurale. Inutile, impossibile, sbagliata, la “riduzione ad uno”. Ma a distanza di secoli in tanti non se ne sono accorti, e purtroppo tra questi ci sono non pochi appartenenti alle cosiddette classi dirigenti di ogni livello e dislocazione. E con ciò non voglio né formulare accuse né dare lezioni a nessuno, ma solo fare considerazioni a voce alta, affermando il diritto di dire la mia sulla base di espliciti punti di riferimento teorico-culturali.
Quelle che seguono dunque sono le riflessioni di chi a suo tempo lesse quel libro, cercò di capirne il messaggio non passeggero e di trarne qualche insegnamento per l’azione. Per questo parlo di riflessioni di un riformista, appiccicandomi peraltro addosso una definizione che so bene avere in sé i limiti e gli equivoci di tutti gli “ismi”, ma che per lo meno ha il pregio di indicare un orientamento culturale che non pretende di tener ferma la realtà, che di per sé sempre si muove. Certo, c’è anche che non potevo ignorare sull’argomento della crisi delle regioni il pungente intervento del mio amico Pier Luigi, che si sarebbe sicuramente offeso se avessi ostentato indifferenza di fronte al suo perentorio “Dio ci salvi dai riformisti”. Qui vorrei solo dire a Pier Luigi che il riformismo non è un’ideologia ma solo un metodo di analisi per l’azione efficace, la cui natura è infatti di ragionare su ciò che è possibile fare per risolvere sensatamente i problemi. Come dire: l’uso della ragione al posto delle pulsioni irrazionali o della pretesa di mettere le braghe al mondo, magari a proprio uso e consumo. Non a caso il riformismo ha avuto scarso successo in Italia, dove prevalgono normalmente atteggiamenti poco razionali, propensioni all’estremismo parolaio, rivoluzionarismo di facciata o conservatorismo acritico. E Orvieto non fa certo eccezione. Dunque, proponendo una visione riformista delle cose da cambiare in Umbria, so bene che non avrò grande successo, almeno nell’immediato. Ma questo non mi spaventa né mi meraviglia. Allora vado con ordine.
1. I problemi istituzionali non si risolvono tra noi e noi
In un mondo globalizzato non ha senso far finta che i problemi istituzionali ce li risolviamo da soli discutendo tra noi come fossimo tra le quattro mura di casa. E invece è proprio quanto sta accadendo con la questione province, trattata come questione di famiglia quando si decide come spartirsi l’eredità. Il tema di un assetto bipolare equilibrato della regione è vecchio come il cucco ed era sensato averlo risolto decenni fa, quando si discettava di policentrismo umbro. Pensare di realizzarlo oggi con passaggi strumentali di alcuni territori da una realtà amministrativa ad un’altra non è solo un pessimo artificio ma una vera e propria operazione deviante rispetto al problema di adeguare l’assetto istituzionale alle esigenze di risanamento e di crescita che si pongono da tempo e oggi in modo non più eludibile.
2. Il riferimento per le riforme è l’Europa
La prospettiva cui riferirsi per impostare le riforme ad ogni livello non può essere che l’Europa, ossia la consapevolezza che per i popoli europei non ci sarà futuro senza una politica comune nei settori chiave, dunque senza unità politica. Tutti sanno che la crisi finanziaria dell’Europa dipende dal fatto che l’euro è una moneta senza stato (al contrario ad esempio del dollaro, dello yen o della sterlina) e che le politiche di risanamento fatte solo ai livelli delle singole nazioni hanno necessariamente il fiato corto. In una simile prospettiva come si può pensare che la questione decisiva dell’assetto istituzionale dell’Umbria sia il mantenimento di due province seppure territorialmente equilibrate? Non viene in mente che il problema è un bel po’ diverso?
3. La crisi del regionalismo è tale che ormai sono in discussione le regioni
La verità che ancora pochi ammettono, ma che è già sul tavolo di chiunque voglia ragionare sul serio sul nostro futuro, è che le cose sono arrivate ad un punto di crisi così grave che sono ormai in discussione le stesse regioni per come sono state costruite in quarant’anni di storia. Le condizioni in cui sono ridotte tante regioni da Nord a Sud (basti la sola constatazione di ben sette consigli regionali sotto inchiesta come tali) non dice ancora nulla sulla strada da prendere? Più chiaramente, a che serve attardarsi in sofisticate quanto inutili costruzioni istituzionali, che oggi rischiano di apparire ed essere funzionali solo al mantenimento in vita di ceti politici lontani dai bisogni reali dei cittadini? Non sarebbe meglio assumere qui in Umbria come decisiva la prospettiva di una macroregione dell’Italia centrale, che potrebbe, essa si, essere idea mobilitante per un’operazione di profondo rinnovamento della cultura politica e dei metodi si governo, e ovviamente per il rilancio di tutte le politiche di settore?
4. Non possiamo accettare una riforma che non riforma nulla
E noi che facciamo, qui ed ora? Saremo in condizione di fare qualcosa di sensato? Forse sì, visto che nelle scorse settimane ha preso finalmente avvio una discussione di fondo che, se non ha fatto emergere indicazioni per strategie risolutive, ha però avuto il merito di aver messo il dito nelle diverse e correlate piaghe che ci affliggono: quella di un regionalismo centralistico che, dietro il paravento del policentrismo, in realtà ha solo favorito la frammentazione e il campanilismo, ritardando corrispettivamente lo sviluppo dei territori, soprattutto di quelli di confine, come appunto è il nostro; la necessità di una visione di ampio respiro, che sospenda le operazioni in atto e riprogetti l’assetto generale in modo funzionale alle esigenze che si sono manifestate; l’utilità del dialogo dei territori al di là dei confini amministrativi provinciali o regionali; uno sviluppo possibile secondo i nuovi parametri della sostenibilità, che metta a frutto le potenzialità sinergiche delle diverse aree con progetti di ampio respiro, culturale ed economico. Per questo dico forse sì, appunto perché non basta aver fatto emergere anche a sinistra la consapevolezza che non abbiamo vissuto e tanto meno viviamo oggi nel migliore dei mondi possibili. Bisogna infatti passare rapidamente alla “pars construens”. Cosa difficilissima, ma determinante, ora, subito. E la prima cosa importante è dire a chiare lettere che da una riforma che non riforma nulla ci perderanno tutti, e noi certo più di altri, perché il processo faticoso di uscita da uno stato marginale da tempo interrotto si trasformerà in marginalizzazione strutturale. Perciò non possiamo stare a guardare, sapendo che non c’è solo da evitare quel pericolo, ma che c’è soprattutto un’occasione di cambiamento irripetibile. Possiamo rovesciare una tendenza che è sbagliata non solo per noi, se riusciremo ad allearci con chi in altri territori la pensa come noi, ponendoci perciò da un punto di vista generale, come interpreti di un interesse generale.
5. Possiamo costruire una nuova prospettiva
Quale prospettiva delineare dunque? Riassumo: sguardo rivolto all’Europa; no a province costruite artificialmente; si a strumenti snelli di coordinamento delle politiche territoriali di area vasta; sì ad iniziative di collaborazione tra aree cerniera interregionali (ad esempio Trasimeno, Bassa Toscana, Alto Lazio) sia per progetti di modernizzazione e crescita che per gestione efficiente di reti e servizi. Ci sono risorse ampiamente non utilizzate da mettere in gioco. Ci sono occasioni da non perdere (ad esempio il Giubileo straordinario). Ed è veramente impossibile accettare che non siano questi i temi in discussione da parte delle classi dirigenti regionali e in gran parte locali.
6. Il COVIP promuove un’apposita iniziativa
Il COVIP, Centro Orvietano di Vita Politica Senatore Romolo Tiberi, organizza per questo un incontro pubblico il prossimo 19 ottobre. Ci auguriamo che quanti, a livello politico, istituzionale e culturale, sentono il bisogno di un cambiamento profondo nell’impostazione delle riforme istituzionali della nostra regione nel contesto del risanamento e del rilancio del nostro Paese partecipino attivamente. Molto presto sarà reso noto il programma dell’iniziativa.
Franco Raimondo Barbabella