Caro amico, questa settimana ti scrivo …
Pier Luigi Leoni
Caro amico, così ti rispondo …
Franco Raimondo Barbabella
Orfani di Umbria Jazz?
Perché Roccella Jonica sì e Orvieto no? Quale è stato il parametro di valutazione che ha permesso il finanziamento del festival jazz di Roccella Jonica e negato lo stesso finanziamento a Umbria Jazz Winter di Orvieto? … Col Ministero si è sfilata anche la Provincia di Terni e un grosso sponsor, il Trento Doc. Sono in corso trattative per l’intervento di nuovi marchi, ma i contratti non sono ancora chiusi. Si vocifera del possibile ingresso di altre “bollicine”, quelle del Ferrari, e di una importante compagnia di crociera il cui nome resta top secret. Ma nulla di confermato. (OrvietoSì)
P. Confesso che amo il jazz (come non potrei, essendo nato durante l’ultima guerra?) e voglio bene agli albergatori, ai ristoratori e ai commercianti orvietani che ricavano qualcosa da una manifestazione come Umbria Jazz Winter. Tuttavia, quando penso che la manifestazione costa più del doppio di quello che incassa dagli utenti e dagli sponsor mi sorge spontanea una domanda: i cittadini che pagano le tasse, se potessero scegliere per la destinazione dei loro quattrini tra la sanità (o la ricerca o l’istruzione pubblica) e Umbria Jazz Winter, come sceglierebbero? E allora, tra i misteri della democrazia, “s’annega il pensier mio”. Ma le stesse perplessità valgono per Roccella Jonica.
F. Anche io penso che spesso le domande della democrazia fanno venire il ‘capostorno’. Come in questo caso, perché il dilemma è di quelli seri: viene prima la cultura o vengono prima i classici servizi che consideriamo essenziali (sanità, scuola, mobilità)? Temo che un eventuale referendum si concluderebbe con la sconfitta della cultura 8 a 2, eccetto forse nel caso che l’alternativa fosse la sola scuola. Ma il mio pessimismo ha poca importanza. E poi, perché semmai è pessimismo? Lo è perché non è forse vero che la convinzione che la cultura viene dopo è da sempre nella testa di chi governa ad ogni livello, talché, quando c’è da tagliare e chiudere, si taglia e si chiude subito senza troppi complimenti (e con la certezza che così va bene anche al popolo) ciò che, in senso pieno o parziale, è definibile come cultura? Io la penso in modo esattamente opposto, giacché sono convinto che la cartina di tornasole della salute di una società è il ruolo che essa affida a cultura, istruzione e ricerca. Naturalmente non in modo general-generico, né con riferimento a qualsiasi cosa si autodefinisca educazione e cultura. In ogni caso, pur con tutti i distinguo, per una società che voglia coltivare il senso del futuro è essenziale che vi sia un sistema, libero e però organizzato, che coltivi, stimoli, soddisfi e faccia crescere, la sensibilità, il gusto e il pensiero, potenzialmente di ogni cittadino.
Altra questione è perché Roccella Jonica sì e Orvieto no, cioè perché il festival jazz di Roccella Jonica è stato finanziato dal Ministero della cultura e UJW di Orvieto no. Il festival di Roccella Jonica merita di sicuro tutto il possibile rispetto (qualità, 32 edizioni, 8 comuni coinvolti, ecc.) ma fatti del genere lasciano di sasso e indicano purtroppo cose sgradevoli. Non so se tra queste ci sia, come dice qualcuno, che Orvieto conta poco o nulla a tutti i livelli (per cui suggerirei agli onorevoli Trappolino e Giulietti di non limitarsi ad una pur giustificata interrogazione al Ministro e di aiutarci a capire se per caso c’è qualcosa di più corposo e strutturale che non l’ignoranza, una dimenticanza o magari uno sgambetto), ma so che questa è la spia che non c’è una politica culturale, a nessun livello. Non c’è una linea di condotta delle classi dirigenti, non c’è una sensibilità diffusa, non c’è la consapevolezza che soprattutto per l’Italia la cultura e il sapere sono un giacimento di ricchezza, probabilmente inesauribile o quasi. Mi fermo, ma questo è tema che meriterebbe davvero una riflessione approfondita, vasta e continua. Comunque mi sembra opportuna una domanda: noi siamo sicuri di avere la coscienza a posto con la politica culturale? E anche con la formula, il significato, la diffusione, il coinvolgimento, di UJW?
Tempi duri per le Regioni
La cosa surreale è che la riforma più significativa approvata [nell’ultimo trentennio di immobilismo] è quella del titolo V della Costituzione, votata dal solo centrosinistra nel 2001, che ha dato più poteri alle Regioni, cioè a quegli enti che sono tra i principali responsabili dello sfibramento dello Stato e della progressione del debito pubblico. Più poteri a Er Batman… pazzesco. La realtà è che le Regioni sono da abolire e l’Italia è dei Comuni. Tra un baccanale e l’altro è ora che qualcuno prenda il timone di questo Paese e lo riporti sulla terra. (Mario Sechi)
P. Le Regioni sono nel mirino. L’assetto istituzionale italiano fa acqua da tutte le parti, a cominciare dalle dimensioni delle Regioni alla distinzione tra Regioni a statuto speciale e ordinario. Ma lo sperpero di denaro, la confusione legislativa e la corruzione che il regionalismo comporta hanno consentito di comprare i bombaroli sudtirolesi, di lasciare che la Sicilia si cuocesse nella sua acqua mafiosa, abbandonando le velleità secessioniste, e di dare una calmata alla Lega Nord. Lo Stato Italiano, e soprattutto la sua giovane democrazia, non hanno avuto la forza per contenere in altro modo le spinte eversive. Si dice che lo Stato Nazionale italiano sconti il fatto di essere nato troppo tardi rispetto all’Inghilterra, alla Francia, alla Spagna e agli Stati Uniti. E la colpa sarebbe tutta dei Papi. È una vita che provo a immaginare che cosa sarebbe l’Italia se non ci fossero stati i Papi, e se non ci fosse il Papa, e mi sono sempre venuti pensieri che non posso esprimere senza alienarmi i pochi amici che ho.
F. Sai bene che non perderesti la mia amicizia qualunque valutazione tu esprimessi sul ruolo dei Papi nella storia d’Italia. D’altronde che cosa pensi già lo dici con chiarezza e né a me né mi risulta ad altri amici è mai venuto il coccolone. D’altra parte non è venuto neanche a te quando io esprimo, anche bruscamente, pensieri diversi dai tuoi. Ma veniamo al punto.
Credo che tu abbia ragione a tornare per la seconda volta sulla posizione di Mario Sechi, che trova un solido fondamento in ciò che è emerso (e ancora credo emergerà) dalla sentina delle regioni, non sappiamo se di tutte ma certo di molte, comunque sempre troppe, e dunque esemplificativo di un sistema che non funziona. Tralascio di entrare nelle ragioni storiche della debolezza dello Stato in Italia e riparto da quello che dicevo l’altra volta. Dicevo che il regionalismo del Titolo V° va si superato, ma non con il ritorno al centralismo statalista, che abbiamo già conosciuto e che a sua volta è miseramente fallito, piuttosto invece con la ricerca di un nuovo equilibrio tra interessi e poteri generali e interessi e poteri locali.
La riforma del Titolo V° è stata un errore, non tanto per i poteri in più che ha dato alle regioni, o perché è stata fatta all’ultimo minuto a chiusura di una legislatura con i soli voti della maggioranza (allora di sinistra), quanto e soprattutto perché non è stata fatta come parte di una riforma generale dello Stato, e perché di fatto ha prodotto il consolidamento di un assetto istituzionale frammentato e sbilanciato in tutti i sensi (geograficamente, storicamente, economicamente, per forma e portata istituzionale). Così oggi siamo sull’orlo della disgregazione dell’intero impianto. E io penso che se ne può uscire solo se scatterà un processo di riforma che investa tutto il sistema statuale, dal centro alla periferia, compresi dunque i Comuni, che non sono per niente quell’oro colato che una classe dirigente farfallona ogni tanto si bea di dipingere perché non sa di che cosa parla.
L’ho detto, e lo ribadisco: per me ci sarebbe bisogno di un nuovo assetto ben organizzato, per ottenere il quale potrebbero essere sufficienti solo tre gambe: lo Stato, le Regioni, i Comuni, però con poteri chiaramente distinti e coordinati. Le Regioni dovrebbero essere poche e ben organizzate. In esse i Comuni dovrebbero svolgere singolarmente le tradizionali funzioni municipali, e dovrebbero riunirsi in forme associate per svolgere funzioni più complesse in territori vasti e omogenei. Anche qui ora mi fermo. E anche qui però con una domanda, che lascio in sospeso: dov’è la classe dirigente disposta ad andare in questa direzione?
La morale laica a scuola
C’è già chi evoca il detto di Danton: “I figli appartengono alla Repubblica prima di appartenere ai loro genitori”. Tradotto nel 2012, il compito della scuola non è soltanto quello di impartire agli alunni una serie di nozioni scientifiche, ma anche di plasmare la loro etica personale. Così una rivoluzionaria “ora di morale laica” è in corso di formulazione per le scuole a partire dal prossimo anno. È la “missione” del nuovo ministro [francese] dell’istruzione, il socialista Vincent Peillon. (Il Foglio Quotidiano).
P. I figli non “appartengono” a nessuno, neppure alla Repubblica Francese. Da quando nasciamo (secondo me da quando siamo concepiti e addirittura da quando siamo desiderati) a quando moriamo abbiamo bisogno dei genitori, degli altri familiari e della comunità nei suoi vari gradi di organizzazione. Ciò limita la nostra libertà, ma non c’è altro modo per maturare e vivere nella libertà e per la libertà. Da tutti riceviamo, con l’esempio e con l’insegnamento, ciò che ciascuno può dare secondo l’occasione e il livello della propria sapienza. Per quanto riguarda la scuola di Stato, non dovrebbe quindi esistere un problema di insegnamento della cosiddetta morale laica, ma di insegnanti capaci di evidenziare le implicazioni etiche di ogni disciplina, dalla filosofia alla matematica. Altro problema è quello dell’ora di religione, alla quale, come cattolico, preferirei un impegno apostolico di religiosi e laici cattolici in ogni ambiente e in ogni occasione, senza garanzie statali, salvo quella della libertà, e senza soldi pubblici. Ma Franco, soprattutto in questa materia, ne sa più di me.
F. Credo che Pier pensi che in materia di educazione dei giovani ne so più di lui solo perché, come qualcuno ricorderà, mi sono occupato per un certo tempo di scuola pubblica. In realtà non credo di saperne più di lui né più di altri: diciamo che una lunga frequentazione di istituti e di aule scolastiche, di convegni, di letture, e soprattutto di esperienze, mi ha permesso di maturare delle convinzioni che posso ampiamente argomentare, naturalmente senza pretesa di affermare verità incontrovertibili, anche perché verità di questo tipo nelle vicende umane sono difficilmente sostenibili sempre, figurarsi quando si tratta di infanzia e di adolescenza.
Venendo al merito delle questioni che pone Pier Luigi, non mi pare ci sia da aggiungere molto a ciò che lui afferma. Infatti la questione centrale è proprio questa: i figli non appartengono; i figli semplicemente sono. E solo per il fatto che sono, per di più senza che lo abbiano deciso loro, sono titolari di diritti. In prosieguo di tempo diventeranno anche titolari di doveri, secondo quanto stabiliscono le leggi. E la scuola ha appunto il compito di renderli progressivamente consapevoli dei diritti e di educarli all’esercizio responsabile dei doveri, insieme e auspicabilmente in collaborazione con le altre agenzie educative, in primis la famiglia.
Non è la prima volta nella storia che qualcuno propone più o meno consapevolmente una concezione proprietaria dei figli. Cominciò Sparta e proseguirono molti altri, per finire ai regimi dittatoriali del novecento in Europa, e per proseguire purtroppo in diverse parti del mondo anche nell’epoca presente. Ma l’educazione di persone libere e responsabili non sopporta le costrizioni dell’anima e della mente. Ne va della natura stessa della democrazia. È ben vero che la libertà assoluta non esiste né può sensatamente essere invocata, ma è solo la mente libera che contribuisce alle decisioni responsabili e produttive di benessere per la comunità. Va perciò sempre tenuto presente che lo Stato è democratico se educa e garantisce le menti libere.