Caro amico, questa settimana ti scrivo …
Pier Luigi Leoni
Caro amico, così ti rispondo …
Franco Raimondo Barbabella
Abolire le regioni?
Si parla tanto di abolire le province, o almeno di ridimensionarle. Sarebbe ben più utile sopprimere le regioni, partendo da quelle a statuto speciale per estendersi a quelle ordinarie… La facoltà di legiferare riconosciuta a questi enti ha prodotto i guasti che i politici di destra e, in parte, di centro, avevano predetto per decenni. Purtroppo, le loro profezie, per cassandresche che fossero, si sono rivelate ben inferiori ai danni oggi registrati. (Marco Bertoncini)
La realtà è che le regioni sono da abolire e l’Italia è dei Comuni. Tra un baccanale e l’altro è ora che qualcuno prenda il timone di questo Paese e lo riporti sulla terra. (Mario Sechi)
P. Per fortuna le ideologie se la passano male, ma, di fronte all’emergenza, ci stiamo baloccando con le opinioni che, giusta l’insegnamento imperituro dei filosofi greci, sono espressioni imperfette della ragione. Arriverà il tempo di una democrazia evoluta in ideocrazia? Il governo Monti è tecnocratico o ideocratico? Nel primo caso rappresenterebbe una deroga alla democrazia e ne implicherebbe il fallimento. Nel secondo caso rappresenterebbe una evoluzione della democrazia. Propendo per la seconda ipotesi, ma, non volendomi invischiare nelle opinioni, chiedo l’aiuto di Franco.
F. Dopo che è scoppiato il caso Lazio ha preso forza l’idea – in questi giorni ne sono pieni i giornali di tutti gli orientamenti – che, più che le province, bisognerebbe abolire le regioni. Non era successo con i casi della Lombardia, della Sicilia o della Campania. Perché? Ma perché, se anche lì corruzione e clientelismo sono ben presenti ad indicare l’ampiezza e la gravità del fenomeno, il caso Lazio non solo ha squarciato il velo degli sprechi e dei privilegi dei consigli regionali, ma ha sbattuto in faccia agli italiani che c’è una “casta invisibile delle regioni” (il libro di Pierfrancesco De Robertis) che se ne frega altamente se il Paese è sull’orlo del fallimento, se il risanamento rende difficile la vita a milioni di persone, se ci sono adulti e giovani o che hanno perso lavoro o che non riescono a trovarne uno qualsiasi e devono arrangiarsi in mille modi per sopravvivere. Non solo se ne frega, ma finché può, fino all’ultimo, difende prebende e privilegi, lontana mille miglia dai bisogni e dai sentimenti delle persone normali.
Trovo dunque comprensibile che la conclusione che se ne può trarre è che è bene abolire le regioni. Trovo molto meno comprensibile che si dica – prevalentemente a destra – io l’avevo detto. La verità storica è che il decentramento politico-amministrativo previsto dalla nostra costituzione non è stato mai attuato come si deve, mai in modo organico, sempre a pezzetti, e in queste condizioni non poteva dare i suoi frutti. A ciò si aggiunga che il modo di selezionare le classi dirigenti con i decenni è diventato sempre più grigio, privo di spessore e rigore, fino alla cianfrusaglia attuale, che non permette di distinguere il grano dal loglio nemmeno ai più attenti analisti e onesti osservatori.
Che fare allora? Il mio punto di vista è semplice: al centro di una buona organizzazione dello stato ci sono i comuni; le province non servono, bastano unioni di comuni su base volontaria per gestire i servizi e le politiche comuni di area vasta; le regioni così come sono rappresentano un ostacolo allo sviluppo moderno e alla crescita, perciò si deve lavorare di buona lena per creare macroregioni che rappresentino sistemi che funzionano. Credo di avere le carte in regola per dirlo oggi perché sono almeno trent’anni che parlo di superamento dei confini amministrativi provinciali e regionali ed è da qualche anno che insieme a Giovanni Codovini sono tra quelli che in Umbria hanno posto il problema del passaggio ad un ruolo protagonista dei territori in direzione dell’“Italia di mezzo”. Mi auguro che la crisi che viviamo non porti alla restaurazione di un centralismo inefficiente che abbiamo già conosciuto e che si realizzi al contrario quel nuovo assetto snello e responsabile, cioè funzionale, di cui abbiamo bisogno già da tempo per essere un paese europeo nel senso più alto, capace di competere con gli altri per la qualità che riesce ad esprimere.
Quanto alla tua domanda se Monti sia tecnocratico o ideocratico e se l’ideocrazia sia un’evoluzione della democrazia, credo di poter rispondere negativamente ad entrambe le questioni. Intanto tutti i dizionari definiscono ideocrazia nel modo seguente: “Forma di governo che si basa su principi ideologici che vengono anteposti all’interesse individuale”, e fin qui poca apprensione, anche se l’ideologia un po’ di prurito me lo stimola. Ma se si va sul piano dell’esperienza storicamente effettuale, le cose cambiano. Prendiamo ad esempio la politica americana dell’epoca Bush, sia George H. W. Bush (padre) che George W. Bush (figlio). Essa è stata definita da Costanzo Preve nel 2006 come “ideocrazia imperiale” e Filippo Ronchi (rivista “Comunitarismo”) ha riassunto così la sua natura: “L’impero ideocratico americano cerca di imporre la propria koinè di comportamenti e valori ed in questo è simile (al di là della maggiore ampiezza geografica) alla logica di diffusione della antica koinè ellenistica, ma rispetto ad essa è mille volte più odioso perché si basa su una «visione» a base puritano-protestante (la Missione Speciale degli USA come unica nazione «indispensabile» del globo in quanto dispensatrice di «libertà»), una ideocrazia – appunto – del tutto assente nel mondo antico”. Dunque, anche depurandola dell’aggettivo imperiale, l’ideocrazia evoca non l’evoluzione della democrazia ma il suo contrario. E vengono in mente tutti i fallimenti delle esperienze autoritarie antiche e moderne, interne ed estere. Meglio lasciar perdere, e cercare di far funzionare la democrazia nel suo senso più pregnante, perché si può, naturalmente se si ha forza e coraggio di cambiare persone che non funzionano, metodi che non funzionano, duplicazioni, sperperi, latrocini, ignoranza, ecc. ecc. Monti ideocratico? Non saprei. A me pare che quella di Napolitano sia stata un’ottima scelta, comunque inevitabile, anche se non condivido affatto, anzi trovo insopportabile, la decisione di far pagare il risanamento a chi ha sempre pagato. Mi auguro perciò che le correzioni di rotta nella politica economica e sociale e la necessaria e urgente riorganizzazione dello stato non significhino buttar via il bambino con l’acqua sporca.
Ambientalismo e speculazione
Vi sono ideologie che, forse perché si vergognano di esserlo, si travestono da idee rigorose e concrete. Come quelle marxisteggianti che si nascondono sotto un programma antimilitarista o difensore del sistema ecologico. Tale è il caso di alcuni movimenti denominati “verdi” che, invece di parole d’ordine ideologiche – comuniste o di altro tipo – agitano dati fisiochimici e requisiti biologici. In tali soggetti le ideologie tentano di vestirsi di un’apparenza tecnica e razionalizzata. Se l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio rende alla virtù, questa mascherata equivale ad una confessione di scarsa presentabilità e ad un riconoscimento dell’inferiorità dell’elemento ideologico rispetto a quello scientifico. (Gonzalo Fernández de la Mora)
P. È una vita che cerco la via di mezzo più razionale tra l’ideologismo ambientalista e la cieca avidità degli speculatori. Anche se mi fossi dedicato alla scienza, come avrei potuto evitare di schierarmi sull’uno o sull’altro fronte? Anche qui ho bisogno dell’aiuto di Franco.
F. Ti ringrazio della fiducia, ma non so se potrò esserti di aiuto. Ti propongo comunque qualche considerazione, in parte generale e in parte personale. Intanto non trovo né disdicevole né pericoloso dichiararsi ed essere antimilitaristi o ecologisti, per ispirazione marxisteggiante, cristiana, liberale o non so che cosa. Il punto inaccettabile è uno: la pretesa, tipica di tutte le ideologie, di trasformare ispirazioni ideali legittime e positive in costruzioni coattive senza tener conto né del punto di partenza né del possibile punto di arrivo. La politica effettuale – tu lo sai bene quanto me – può trasformare invece una buona idea in realtà solo se tiene conto appunto del contesto esistente e se costituisce rispetto ad esso un beneficio, magari non immediato, ma chiaramente e realisticamente ipotizzabile almeno in un futuro credibile. In altri termini, non dico certo che il meglio è necessariamente nemico del bene, ma che la ricerca del meglio non può essere costruita in modo dottrinario. D’altronde la misura di ciò che è bene restano sempre i risultati dell’azione e perciò, in partticolare in campo economico, politico e sociale, il giudizio fondato è quello a-posteriori.
Personalmente, come ben sai, non amo le ideologie, ma le idee, peraltro da mettere a verifica nel rapporto con la realtà. Rispetto alle speculazioni sull’ambiente e la salute, scelgo senza tentennamenti ambiente e salute. Ma, lo ripeto, la questione è come fare politiche efficaci per l’ambiente e la salute, senza fermarsi alle petizioni di principio, che magari salvano la coscienza, ma lasciano la realtà come prima o peggio di prima. La scienza può aiutare, e però è utile, anzi indispensabile, se non viene trasformata in ideologia scientista. Il dunque è ancora quello: io lo chiamo riformismo, che è solo un metodo per pensare ed operare ancorato alla ragione e fondato sul principio di realtà.
Castel Giorgio: paese di individualisti
Pier Luigi Peparello perde pezzi. L’assessore Piero Tilli e il vicesindaco Sandro Focarelli hanno rassegnato stamattina le dimissioni. L’assessore Tilli dichiara, “dopo attenta e lunga riflessione e dopo tentativi di leale collaborazione ” di non farcela più, tanto sarebbe inutile continuare in una condizione in cui gli sarebbe impedita la gestione delle deleghe. Ancora più amareggiato Focarelli, che accusa il sindaco di “gestione personalistica e accentratrice” che ha trasformato una possibile collaborazione “in una continua rincorsa sulle decisioni prese”. Il sindaco Peparello aveva già perduto consiglieri e assessori di Sinistra e Libertà. Ora al governo del popoloso paese è rimasta una parte solitaria del PD. (OrvietoSì)
P. Nel 2004, sollecitato da quel geniale bastian contrario che era il mio amico Artemio Cinque, polemista, oratore dalla eccezionale vis comica, uomo incontenibile soprattutto nella generosità, che è recentemente scomparso lasciando un grande vuoto, mi lasciai convincere a candidarmi come sindaco. L’obiettivo era di ricucire le anime e di attenuare le idiosincrasie all’interno del centrodestra, che, sebbene maggioritario alle politiche, perdeva sistematicamente le comunali. L’operazione non riuscì, ma non me la sentii di abbandonare l’amico Artemio, col quale, tra l’altro, avevo organizzato una bella festa intitolata “Verità, Vino e Porchetta”. Furono presentate due liste di centrodestra e il centrosinistra vinse a mani basse. Entrai in consiglio in minoranza, insieme con Artemio, e devo dire che il quinquennio fu una passeggiata. Mi meravigliavo come gente così ragionevole e tranquilla, di destra o di sinistra che fosse, a cominciare dal sindaco Peparello, si comportasse in modo così strano al momento delle elezioni. Le elezioni del 2009, alle quali ovviamente non mi ripresentai, furono ancora più sconclusionate di quelle precedenti. I recenti fatti dimostrano che la confusione che tradizionalmente penalizzava il centrodestra ha infettato il centrosinistra. Eppure quel popolo di individualisti, che somiglia poco agli Orvietani e tanto ai Sanlorenzani, continua a essermi simpatico.
F. Conosco anch’io i protagonisti della vita politica di Castel Giorgio e di alcuni di essi mi piace considerarmi amico. Conosco anche le ragioni di tensione di qualche tempo fa, ma non quelle recenti che hanno portato alle dimissioni di Tilli e Focarelli e quindi non so esprimere un giudizio fondato sulla vicenda di oggi. Tuttavia, la mia amicizia con Tilli e la stima che ho per lui mi porta a dire che le sue dimissioni di sicuro non sono un improvviso e infondato colpo di testa. Mi riservo in ogni caso di informarmi e capire meglio.
In generale non credo che Castel Giorgio rappresenti una stranezza nel panorama dei comuni italiani dopo la famosa legge che ha consentito l’elezione diretta dei sindaci, premiando la stabilità a tutto danno del ruolo dei consigli e delle giunte. Non ho mai condiviso chi ha esaltato e continua ancora oggi ad esaltare questo sistema elettorale e la connessa squilibrata distribuzione di poteri e responsabilità. Infatti con esso il ruolo della politica è stato spesso e non a caso sostituito da dinamiche che hanno esaltato più l’individualismo del potere personale che i programmi e le azioni concrete di chi è stato scelto per realizzarli. Appunto, questa situazione non mi piace, e ritengo che sarebbe quanto mai utile che si cercasse una formula capace di garantire un equilibrio più sensato nella distribuzione dei poteri tra sindaco, giunta e consiglio.
Quanto all’individualismo, conoscendo solo qualche sanlorenzano e non potendo avere un orientamento generale, mi sento di dire che, se questa connotazione può essere ritenuta adatta per definire i castelgiorgesi, la loro parentela con gli orvietani (certo non tutti) è quanto mai stretta, direi al livello della fratellanza.