Caro amico, questa settimana ti scrivo …
Pier Luigi Leoni
Caro amico, così ti rispondo …
Franco Raimondo Barbabella
CSCO: una fondazione da liquidare?
8 agosto 2000… È costituita una fondazione denominata “Fondazione per il centro studi città di Orvieto” siglabile C.S.C.O… con lo scopo: a) di realizzare, direttamente o indirettamente, attività educative ed istruttive, culturali ed artistiche, di ricerca e di formazione di elevata qualificazione scientifica, consone alla tradizione storica e civile di Orvieto ed utili allo sviluppo sociale ed economico della città e del territorio circostante; b) di offrire occasioni di formazione e di specializzazione sia per docenti che per discenti e, quindi, di promuovere, accogliere e gestire, senza fini di lucro, corsi, seminari workshops, laboratori, scuole di specializzazione, progetti di formazione, perfezionamento e aggiornamento di elevato livello scientifico nelle diverse discipline umanistiche, sociali, scientifiche e tecniche; c) di attivare la collaborazione con università, centri di ricerca scientifica, poli didattici universitari, istituti di studi superiori italiani stranieri, altre istituzioni pubbliche e private, studiosi e ricercatori italiani e stranieri qualificati in ambito nazionale e internazionale; d) di assumere le iniziative e svolgere le attività necessarie per promuovere l’istituzione di una università degli studi… La Fondazione è amministrata da un consiglio di amministrazione composto da: Enrico Petrangeli (presidente), Franco Raimondo Barbabella (vice presidente), Maurizio Negri (consigliere), Stefano Mocio (consigliere), Pier Luigi Leoni (consigliere).
(Dall’atto costitutivo del CSCO)
P. Il CSCO è nei guai. Risanarlo o liquidarlo? Tenendo comunque presente che il Comune, anche se avesse le necessarie disponibilità, non potrebbe accollarsi i debiti, perché lo proibisce la legge.
F. Già, il Comune non può accollarsi i debiti. Penso che questa sia una fortuna, perché evita che si prendano decisioni truccate, intendendosi per tali quelle che lo lasciassero in vita senza farlo vivere davvero, cioè quelle che gli possono consentire di trascinarsi per qualche tempo alla stracca, ma niente di più.
Il CSCO nacque con ben altro spirito e prospettive, in un altro clima politico e in un altro contesto. Però non si deve mai dimenticare che fin dall’inizio i tentativi di farlo decollare, non solo come sede universitaria, ma anche come ‘semplice’ Centro Studi, trovò ostacoli a non finire, i principali dei quali non erano di natura finanziaria. Erano invece di natura politica e culturale. Di natura politica: non si voleva che l’Università di Perugia assumesse i connotati di un’articolazione territoriale più di quanto non lo fosse già diventata, e tanto meno si voleva che ad Orvieto si impiantasse la Sapienza di Roma con corsi decentrati. Di natura culturale: la classe dirigente orvietana, tranne rare eccezioni, non ha mai creduto davvero alla cultura e alla formazione superiore come elemento strategico per la crescita economica e civile e per il ruolo stesso della città. Altrimenti avrebbe fatto del CSCO la punta di diamante della sua autonomia politica in ambito regionale, non avrebbe lasciato scappare il corso di ingegneria, non avrebbe mollato l’idea della facoltà di architettura, non si sarebbe fatta sfuggire l’occasione di psicologia della salute e neanche di scienze infermieristiche; e poi non avrebbe dato corso a quell’orripilante operazione del Consorzio provinciale; ancora, non avrebbe rifiutato – Pier Luigi lo ricorderà meglio di altri – quella bella e solida idea della scuola di polizia locale da impiantare in collaborazione con quella del Comune di Roma.
Le condizioni generali e locali sono mutate, ma io credo che resti e si veda anche qui la presenza del male orvietano per eccellenza: la mancanza di visione, che è anche mancanza di fiducia in se stessi e di coraggio. Spero di sbagliarmi. Ma per cambiare idea vorrò vedere un Consiglio Comunale che ragiona finalmente in grande, elabora prospettive di lungo periodo, le colloca nel contesto generale, connette tra loro i vari aspetti che possono determinare sviluppo e decide di dare battaglia per riscattare la città e il suo ruolo territoriale. Tutte le idee possono essere buone, ma solo se hanno questa logica e non quella delle furbate in cui ormai si sono specializzate le cosiddette classi dirigenti che in realtà non dirigono nemmeno se stesse. Credo di aver detto anche troppo. Ora aspetto.
Creare imitando il Creatore
Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta… Non occorreva che fosse ben fatta per il salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gl’imprenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura… E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio della cattedrali.
(Charles Peguy)
P. Questo brano dello scrittore, poeta e saggista francese (1873-1914) mi ha commosso, perché mi ha fatto ricordare la sedia della Vergine nell’Annunciazione di Francesco Mochi (1580-1654), capolavoro della scultura manierista realizzato a Orvieto tra il 1603 e il 1608. Chi ha la pazienza e l’agilità di piegarsi fino a terra può constatare che la parte nascosta della sedia è scolpita con la stessa cura dei dettagli come la parte visibile. Si distinguono perfino le fibre intrecciate dell’impagliatura. Questo rispetto di sé stesso e dell’oggetto, questo creare imitando il Creatore, non c’è più. Anche questo è progresso?
F. Bello questo brano, e bello il richiamo all’Annunciazione di Francesco Mochi: ci fanno capire molto bene il senso del passaggio dalla società tradizionale a quella industriale moderna. Eppure io penso che il gusto di far bene le cose non è di esclusiva pertinenza della società tradizionale, ché anzi è benissimo compatibile con la società moderna, e non solo nelle sue espressioni più elevate. E ciò anche quando si è abbandonato il concetto di durata e si è esaltato quello dell’usa e getta. In realtà tutto si può far bene, con cura, con coscienza, con gusto. Il punto è se ci sono e come si stimolano coscienza e gusto. No, non è certo progresso la noncuranza, la cialtroneria, far male il proprio mestiere sapendo di poterlo far meglio. Hai voglia se non saremmo giunti al punto in cui siamo oggi se ognuno avesse fatto il proprio dovere!
Una scuola sputtanata
Università di Calabria: l’esame di ammissione a un corso per maestri è un vero disastro per tre quarti dei candidati. Alla faccia delle tante riforme della scuola… La commissione è stata costretta a bocciare 592 su 647 concorrenti perché troppo somari per l’università calabrese sconvolta in queste settimane dallo scandalo con migliaia di indagati sulle lauree truccate. E questo nonostante i test fossero stati semplificati proprio nel tentativo di non assistere alla strage dell’anno scorso, quando solo poco più di cento ragazzi erano sopravvissuti alla carneficina selettiva… E questo nonostante dalle scuole superiori calabresi escano ogni anno moltitudini di diplomati dai voti non alti ma altissimi.
(Gian Antonio Stella)
P. Una università sputtanata che sputtana gli studenti licenziati dalle scuole superiori. Siamo proprio messi bene.
F. Si, siamo messi davvero bene. Per fortuna che l’Italia non è tutta così. C’è da chiedersi naturalmente perché in diverse parti del Paese le cose sono arrivate ad un punto di vero e proprio degrado e perché in altre parti no. E c’è anche da chiedersi non solo perché si è aspettato tanto a capire che cosa succedeva, ma anche perché, avendo ben capito, non si interviene col bisturi. Giacché quali siano i mali si sa, né sono sconosciute le cure, sia per l’università che per il sistema scolastico e formativo. Ci sono infatti esperienze avanzate sia in Italia che in altri Paesi. Spesso basta copiare, spesso è solo necessario governare i processi, spesso basta che chi dirige si assuma le proprie responsabilità.
Potrei fare più esempi, tutti calzanti. Ne faccio solo uno, però emblematico, l’orario di insegnamento: a parte chi vorrebbe che il mondo aspettasse i suoi comodi e tutti quelli della chiacchieretta da bar, tutti gli altri si rendono conto che così com’è non si regge. Ma se la riforma deve essere quella che ha proposto il governo con la legge di stabilità, allora è evidente che la soluzione sarà, come in effetti è chiaro che sarà, il mantenimento dello status quo. Che però è un’idiozia, perché non consente né ai docenti di lavorare bene, né agli studenti di studiare bene, né ai dirigenti di dirigere bene. La soluzione c’è, è ovvia, ed è in atto in molti paesi del mondo. Si chiama orario onnicomprensivo e consiste in un numero di ore settimanali superiore certamente alle attuali 18 italiane (si va da 22 a 26 e a 29 ore, fino anche a 36), e però non si tratta solo di insegnamento ma di tutte le attività che ad esso sono connesse. Naturalmente la retribuzione ne tiene conto. E tutte le indagini internazionali dimostrano che laddove c’è questa organizzazione anche il rendimento degli studenti è ben più positivo.
Perché non si fanno riforme di questo tipo? Non certo per mancanza di soldi, perché non è difficile dimostrare che si possono aumentare le retribuzioni semplicemente utilizzando meglio risorse già esistenti. Allora perché? Ecco, dalla risposta a questa domanda si capirebbe molto del modo di pensare e dello spessore di chi la dà. La cosa tragica tuttavia è che il ritiro della proposta delle 24 ore tutte di insegnamento viene vissuta come un successo non in quanto presupposto per andare in un’altra direzione, ad esempio quella dell’orario onnicomprensivo di cui ho detto sopra, ma per non andare in nessuna direzione, appunto per lasciare ancora una volta le cose come stanno. E poi ci si dovrebbe meravigliare se ci sono università e scuole che non preparano a niente?