Solo le vere riforme potranno salvare i territori
Le considerazioni fatte dal Consigliere Galanello in materia di riforme e di riordino dei vari Enti di primo e di secondo grado non possono essere lasciate cadere nel vuoto e debbono inevitabilmente innescare l’apertura di un confronto a tutto tondo per sollecitare le classi dirigenti a mettere in campo proposte che superino le contingenze della situazione che stiamo vivendo , ma anche quelle della piccola politica. Se va dato atto a Galanello di voler innescare un dibattito sul futuro assetto istituzionale della Regione, è altrettanto vero che le sue considerazioni si fondano su un vizio di fondo di matrice anti-storica e, per certi versi, giacobina: in sostanza il Consigliere si duole del fatto che 40 anni di Umbria non sono riusciti a sopire le identità ed i campanilismi e che il risveglio delle singole specificità territoriali è la conseguenza di una mancata sedimentazione di una coscienza e di una cultura regionale. Fatte le debite proporzioni (non sia mai!), è lo stesso stupore che ebbero i burocrati di Mosca o di Belgrado quando in pochi mesi videro sgretolarsi il potere costituito sotto il grande risveglio delle identità dei popoli. Quando ci si stupisce che vanno riscoprendosi le logiche di campanile, che affondano le radici in millenni di storia, si dimostra un approccio parziale alle tematiche delle riforme istituzionali. Non sfuggirà a nessuno che definire i confini a tavolino (la storia ne è piena di casistiche) o credere che con una legge o con un nuovo assetto si possano superare le differenze scolpite in secoli di storia è un errore che non dobbiamo compiere. Tra l’altro, è sempre doveroso ricordare che la storia della nostra nazione si fonda sulle municipalità e sui campanili, a differenza di altre nazioni europee, come ad esempio Spagna, Belgio e Germania, che hanno fatto del regionalismo (anche spinto) una cifra fondante nella loro struttura istituzionale e politica. Se non si parte da questa premessa, qualunque riforma abortirà o, se ne dovesse essere concepite anche solo una, non produrrà effetti positivi per le comunità interessate. Ed allora, se non possiamo incidere sulla definizione di una Assemblea Costituente che riformi l’assetto istituzionale dell’intera nazione Italia, superando in primis tutte le superfetazioni che si frappongono tra lo Stato ed i Comuni, possiamo almeno dare un fattivo contributo sulle riforme che dovrebbero essere definite dalla Regione Umbria. Una Regione che, tramite le sue classi dirigenti apicali, per decenni ha abusato del termine policentrismo, come se bastasse pronunciarlo per poterlo mettere realmente in campo. Oggi, di fronte ad una crisi di sistema conclamata e di fronte ad una situazione economica molto preoccupante, non servono più le parole, gli slogan o le promesse. Nella Regione Umbria (fino a quando ci sarà), e più in generale in Italia, occorre mettere mano alle riforme in maniera strutturale ed occorre farlo superando definitivamente le logiche dettate dalle burocrazie centraliste perugine e ternane; non sarà più credibile una classe politica che dovesse vedere contrapposti i soliti centri di potere al solo fine di difendere l’indifendibile, magari per qualche strapuntino di periferia. Quello che si legge dall’articolo di Galanello (e lui è una voce autorevole, visto che sta dentro le stanze che hanno il potere di decidere) è molto preoccupante: perché se sulla stagione delle riforme che si sta aprendo si dovesse “continuare con le logiche di forza tra Perugia, Terni e Foligno”, oppure si dovesse continuare “sulla strade del confronto-scontro tra le città aree (?) ed i territori” allora, come dice lo stesso Consigliere, si correrebbe il rischio di “giocare con le riforme sul tavolo della competizione invece che su quello della coesione”. Ma questo paventato pericolo che avanza Galanello e che – giustamente – è la vera zavorra di qualsiasi riforma seria, non nasce dal nulla o dalle contingenze dei tempi: questa situazione nasce e si sviluppa in questi quarant’anni di regionalismo e si fonda su un approccio culturale che predilige l’appiattimento e l’omologazione dei territori, ed in alcuni casi anche una vere sottomissione economica e politica. Dal 1970 ad oggi hanno prevalso logiche centralistiche (chi si ricorda del centralismo democratico?!), così da determinare il futuro delle realtà territoriali esclusivamente attraverso scelte politiche funzionali agli interessi delle burocrazie che nel corso dei decenni si sono succedute. Oggi, se veramente si vuole affrontare il tema fondamentale delle riforme, occorre ripensare radicalmente la nostra Regione (fino a quando ci sarà), mettendo al centro le municipalità ed i territori (grandi o piccoli che siano, non importa) e chiudendo definitivamente la stagione delle società o dei consorzi, strumentali politicamente a bilanciare le marginalizzazioni di alcuni territori. Dobbiamo cambiare a 180° la rotta: devono essere i territori a scegliere cosa fare e con chi aggregarsi. Non dovranno essere più le burocrazie di partito a scegliere per le comunità.