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Home Corsivi

Conoscere per governare: è ancora valido l’einaudiano pensiero ?

Redazione by Redazione
10 Settembre 2012
in Corsivi, Archivio notizie
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Se l’appartenente al genere umano è stato definito, da gran parte della filosofia antica fino a quella contemporanea, come “essere raziocinante e ragionevole” e come “possibilità di auto-progettazione”, ciò non significa necessariamente che il suo pensare, il suo scegliere e il suo agire, anche se razionali, siano infallibili. Certo, il “logos” più specifico dell’Homo Sapiens in quanto “ragione e discorso” è potenzialmente infinito e gli conferisce, quale fosse prodigio, quel tratto di unicità che differenzia il pensare e il dialogare dell’essere uomo da quello di ogni altro essere vivente.

Ed è proprio codesta unicità che caratterizza l’esistenza umana, qualificandola come irripetibile.

La strutturale finitudine dell’uomo, alla quale corrisponde una vita biologica transitoria e dunque scandita da un inizio e da una fine, non impedisce di riempire di significati ogni atto di pensiero e di azione compiuto in quella rete di relazioni che, quotidianamente, intratteniamo con ciò e con chi ci circonda. E’ in questo modo che noi diamo un senso alla nostra vita e la definiamo come nostra, pur nella sua contingenza e precarietà, ma anche nel suo valore, nella sua singolarità ed eccezionalità.

La limitatezza della condizione umana non può essere soltanto un ostacolo, un difetto, una deviante irregolarità. Come ho avuto modo di sottolineare più volte, è certamente vero che l’esistenza umana è connotata dall’imperfezione e dall’errore; ma, ciò, non può essere considerato come risorsa, invece che come carenza? Il fatto che il nostro agire nel mondo può essere fallibile e sottoponibile a dubbio, può forse significare che ciò che pensiamo e operiamo è sempre potenzialmente sbagliato o, non piuttosto, che l’errore ci permette di spingerci ancor più oltre, di ricercare ulteriormente, di visualizzare le realtà da più prospettive con lo scopo di migliorarle?

Il dubbio allora non è indice di errore, ma di fecondità!.

Solo per inciso, mi permetto di rammentare la basilare distinzione tra errore ed errante posta a fondamento della, forse, più magistrale Enciclica Giovannea. L’errore va sempre contrastato, combattuto e per quanto possibile emendato e corretto; l’errante, cioè colui che annaspa e brancola nel buio dell’ignoranza insipiente, va al contrario compreso, perdonato, accolto, educato e preso per mano onde condurlo fuori dalle sabbie mobili della sua caducità.

Ritorniamo, orsù, al ragionamento appena interrotto!.

Il nostro essere ragionevoli e progettanti significa possedere la capacità e la volontà di saper attivare i lumi dell’intelletto, di porre in discussione e sottoporre a critica, di scegliere e intervenire efficacemente per modificare e cambiare, per modificarci e cambiarci. E’ grazie soltanto a questi intrecci, così vitali e propositivi, che la nostra esistenza come l’altrui procede in avanti e cresce arricchendo, di conseguenza,  la convivenza sociale, l’umana civiltà, il corso stesso della Storia.

Non v’è dubbio, e lo ribadisco, che il nostro pensare e il nostro agire sono intrinsecamente limitati: ogni nostra scelta, o iniziativa, o progetto vengono almeno in parte determinati da ciò che esiste già e da ciò che già è esistito. Ma proprio per questo il nostro impegno e il nostro dovere non possono che indirizzarsi nel segno di progredire, di cambiare radicalmente laddove è necessario, di migliorare a tutti i costi la pessima contingenza dell’attualità.

Il dubbio e la consapevolezza di essere imperfetti, e quindi di errare, non ci devono penalizzare o paralizzare, ma spronare invece verso un progresso conoscitivo e pragmatico che è e sarà il benessere generale di una intera società.

Il nobile animale razionale e progettante, che noi tutti siamo, non può sottrarsi a tale inderogabile consegna: è la nostra fatica, ma è anche la nostra soddisfazione. Anche in questo risiede l’unicità e la forza della nostra esistenza.

Si tratta, prendendo a prestito una splendida frase di Kundera, dell’insostenibile leggerezza dell’essere per cui, forse, il nostro fardello più oneroso è la superficialità con la quale siamo portati a considerare il mondo a noi circostante; mentre, di converso, la nostra ricchezza scaturisce dalla percezione di essere in grado di realizzare qualcosa di nostro, unico e irripetibile, e che inevitabilmente lascerà una traccia in direzione non sempre e non solo di un “Io”, ma di un “Noi”.

L’uomo, da sempre, ha cercato di spiegare e di spiegarsi, di risalire fino alle cause ultime di ogni fenomeno; ciò è avvenuto attraverso la forma arcaica del mito sino ad arrivare alle sempre più matematiche teorie scientifiche. Spinto dallo stupore di fronte a ciò che è sconosciuto, dalla curiosità di penetrarvici dentro, ma anche dall’ancestrale paura dell’ignoto, ha sempre tentato di trovare il perché di ogni accadimento al fine di approdare alla tranquillità del noto. Quello che, oggi, viene quasi spontaneo domandarsi è se è ancora esatto affermare che il non sapere e il non conoscere ci getta nel panico o se, addirittura, avviene il contrario.

E’ forse più agevole, più utile, più comodo e preferibile non sapere per avere minori responsabilità o per affrontare minori sacrifici? Si teme di più, conoscere o non conoscere? Rimanere nel proprio ristretto orticello offre più tranquillità che l’interessarsi, il prendersi cura delle nostre esistenze e il porgere la mano e la mente per un contributo comunitario?

L’albero della conoscenza è terribilmente alto, ma non arrampicarcisi sopra ha tutto il sapore della pochezza e della codardia e chi è codardo, per terrore della conoscenza stessa, non può certo ambire a governare.

 

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