di Elio Taffi
Già quattro i concerti che hanno avuto luogo presso il Teatro Mancinelli, in uno splendido Ridotto che proprio l’intuizione del maestro Carlo Frajese ha piegato alla musica classica sin dal 2002, anno della prima edizione orvietana del “Valentiniano”. L’inaugurazione della XVII edizione è stata affidata al Globeduo, composto da Andrea Oliva (flauto) e Costanza Savarese (chitarra). L’abbinamento flauto-chitarra è piuttosto frequente; trattasi di due strumenti in grado di ben concomitarsi vicendevolmente. Il Globeduo si avvale della partecipazione del miglior flauto italiano della sua generazione: Oliva è primo flauto solista dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in Roma, dopo essere stato anche primo flauto ospite, a soli 23 anni, dei Berliner Philarmoniker ed aver così collaborato con Abbado, Maazel, Gerghiev, Jansons e Haitink. Il concerto orvietano, accolto positivamente dagli spettatori affezionati al Festival, ha proposto un’interessante miscellanea di brani originali o adattati per la formazione in questione. A dire il vero, la Sonata detta Arpeggione di Schubert, eseguita con il flauto e la chitarra, poteva dare adito a qualche perplessità iniziale; ma, tenendo fermi i rigurgiti filologici, verità vuole che si possa parlare di esperimento positivo, in quanto i due esecutori sono riusciti a restituire integra la poetica schubertiana più verace, non appesantendo le dinamiche espressive ed interpretative ma, anzi, rivelando quella sorta di intima inquietudine “mozartiana”, se vogliamo, che sfugge ai più. In questo, il sottoscritto, rivelando magari la propria incompetenza, ascrive Schubert più al classicismo che al romanticismo, contrariamente ai canoni distintivi in voga nei manuali di storia della musica. Interessante, anche perché di raro ascolto, la Sonatina di Dvorak, quasi un prodromo dei lavori “americani” del maestro ceco, nel quale la chitarrista ha avuto modo di mettere in luce una buona tecnica individuale. Qualche piccola riserva la appunterei al preludio debussyano La fille aux cheveux de lin, brano forse non troppo adatto alla formazione strumentale in questione. Per ultimo, io ricorderò a lungo la capacità di fraseggio di Andrea Oliva, musicista elegante ed infallibile che può seriamente diventare il Gazzelloni del ventunesimo secolo.
Il secondo concerto ripropone ai fedelissimi del maestro Frajese una beniamina delle scorse edizioni, il soprano di origine coreana Joo Cho. Signori, giù il cappello: è difficilissimo trovare una liederista tedesca, o meglio ancora viennese, in grado di eseguire i capolavori di Schubert (sempre lui) con la pertinenza profonda della garbata artista orientale. Ma andiamo per ordine; nella prima parte, con il pianista Marino Nahon (a cui va dato il giusto plauso, anche perché ha offerto una prova di maggiore valore, quest’anno), Joo Cho ha eseguito una selezione di chansons di Claude Debussy veramente deliziose, la cui gradevolezza è stata accentuata dal perfetto francese espresso e da un effluvio di virtuosismi vocali di prim’ordine. Ma è proprio in Schubert che nei Festival Valentiniani del 2010 e del 2011 il soprano Cho aveva impressionato tanto gli spettatori quanto il Maestro Frajese: e Schubert è stato nel secondo tempo del récital orvietano 2012. E che Schubert! L’intero ciclo de Il canto del cigno (13 lieder) è scorso fluidamente, con una levità indescrivibile che ha ammaliato il pubblico, purtroppo non così numeroso come l’alto evento avrebbe richiesto. Ogni frase, ogni battuta, ogni nota, persino ogni pausa, sono state scolpite dalla brava artista coreana con un’abilità senza pari. E il mistero schubertiano ha preso nuovamente forma, nel Ridotto del Mancinelli, rivelando la grandezza, spesso fin troppo bistrattata e ritrattata, del genio di Franz Schubert: “il più grande”, a detta del maestro Frajese, “fra i musicisti viennesi”. Dopo ben 23 brani, gli spettatori del Valentiniano hanno preteso, con furore di applausi, un fuori-programma; ed avrebbero continuato nelle richieste se il volto della signorina Cho, perlato di fatica intrisa di passione musicale, non li avesse mossi a comprensione.
Con Alessio Nebiolo, al Festival Valentiniano si rinnova la tradizione dei grandi chitarristi ospiti; nelle scorse edizioni, diversi sublimi esecutori hanno suonato la chitarra classica in modo pregevolissimo (l’ultimo, in ordine di apparizione, è stato il maestro Giulio Tampalini, presente alla rassegna per ben due edizioni di fila). Anche il maestro Nebiolo (pluridecorato artista nativo di Alessandria) aveva, in precedenza, allietato gli spettatori orvietani. Il suo nuovo récital lo ha visto impegnato nei due autori che forse più gli si confanno: Nicolò Paganini e Francisco Tarrega. Un’altra perla confezionata dal Maestro Frajese per i suoi adepti: il concerto di chitarra ha ottenuto un altissimo gradimento, complice l’inarrivabile qualità esecutiva di Nebiolo. Snocciolati con apparente nonchalance tutti gli ardui passi di virtuosismo, il chitarrista ha porto un’interpretazione affettuosa e coinvolgente, in grado di rendere partecipi i presenti di ogni sfumatura espressiva nella scrittura originale. Infatti, ed è tutto dire, la qualità più grande del maestro Nebiolo è la sua squisita musicalità, di gran lunga superiore all’eccellenza tecnica posseduta.
Arrivando, per il momento, al quarto ed ultimo concerto di cui si è gioito al Mancinelli. Un pomeriggio amusant e raffinato, di cui sono stati protagonisti cinque fiati di livello (Giarbella flauto, Camilli oboe, Picatto clarinetto, Favaro corno e Lodin fagotto) raggruppati sotto il nome di Quintetto Prestige. E via ad un repertorio godibilissimo di attente ed appropriate trascrizioni: dall’ouverture della Gazza ladra di Rossini, a Le nozze di Figaro di Mozart e alla sinfonia de “La forza del destino” di Verdi; brani che, naturalmente, hanno divertito oltre novanta spettatori ma hanno anche messo in luce le singole e luminose qualità tecnico-interpretative dei cinque musicisti. Il programma è stato impreziosito dal Divertimento di Haydn per quintetto di fiati (all’interno del quale il maestro germanico ha usato il celeberrimo Tema di San Giovanni) e da un Pot-pourris su temi del Barbiere di Siviglia di Rossini elaborato da Briccialdi. Ma l’anima didattica del maestro Frajese (non dimentichiamo i vari lustri che ha dedicato all’insegnamento e alla direzione di prestigiose istituzioni formative) si è rivelata nella scelta, in repertorio, di un raro gioiello: l’Opus number 200 di Luciano Berio, un divertissement garbato e sapiente nel quale gli esecutori sono chiamati anche ad una prova recitata da intersecare con note e pause e che è riuscita, in mezzo ai trilli e ai crescendo rossiniani, a seminare un germe di curiosità per la musica dei nostri tempi.
Una prima parte, quindi, del Festival Internazionale Valentiniano diretto dal maestro Frajese – a cui, non dimentichiamo, concede un apporto prezioso nella fase organizzativo-artistica il maestro orvietano Riccardo Cambri – assolutamente in linea con la tradizione delle migliori kermesse europee del settore, e in grado di restituire ancor più bellezza e fascino (di quanto non ne abbia già) alla città del Duomo.