Le attività umane, tutte le attività umane, da che il mondo è mondo, sono sempre state oggetto di apprezzamenti, talora sinceri o talora interessati, come anche di critiche, quando velate o quando feroci, e comunque, ad onor del vero, lo sono tuttora nonostante si tenda a canalizzarle in alvei di benpensante perbenismo.
Alla luce della premessa asserzione, non mi ha mai meravigliato la circostanza di essere redarguito a motivo di un eccessivo profluvio di parole che, a detta di taluni, spesso e volentieri rischia di sconfinare nel terreno di una facondia alluvionale, a volte intenzionalmente irritante, a volte licenziata con pressappochismo e frettolosità.
Ma, in tutta coscienza, così non è!.
Ultimamente, una gentile lettrice ha onestamente ammesso di non aver tempo da perdere per dedicarsi alla scrittura di eloquenti discorsi il cui, unico fine, parrebbe essere solo quello di mettersi in mostra; un’altra pur cortese, al contrario e senza mezzi termini, ha sentenziato che è convenientemente preferibile astenersi dall’addentrarsi nel pensiero altrui poiché, il conoscere, comporta soverchia fatica e scatena il sobbalzare dal comodo dell’ignoranza miserevole, ma utilitaria e producente sul piano della logica opportunista delle “tre scimmiette”.
Nella suggestiva cornice di villa Valentini-Malavolti in Castel Viscardo si è tenuta, sabato scorso, la premiazione del concorso letterario “Racconti di Donne” promosso dalla Sede decentrata di Orvieto della Università Popolare della Tuscia. Colei che lo ha vinto o coloro che si sono classificate ai primi posti, non riveste granché di particolarmente significativo: ciò che, invece, mi preme di evidenziare è lo straordinario desiderio di esserci dimostrato con forza e gagliardia da tutte le partecipanti al concorso stesso.
Desiderio manifestatosi nel considerare di vitale importanza il segnare in forma grafica i propri stati d’animo, la propria visione di ciò che ci circonda, le proprie concezioni e convinzioni esistenziali.
E’ il lasciare traccia di noi; di quello che, da inappagati, siamo stati e di quello che avremmo voluto essere per soddisfare e per soddisfarci: vale a dire, la ricerca infinita del finito, e/o viceversa, accompagnata dalla coscienza fiduciosa che, dalla caducità del provvisorio e del transeunte, si possa aprire la porta escatologica della speranza, di quella speranza tutta particolare che non ci troviamo ad esistere solo per una fortuita casualità.
Scrivere, consegnare cioè al fluire degli eventi l’istantanea dei nostri istanti, ma anche dei nostri istinti, riveste incommensurabile efficacia nella terapia di due tra i principali malanni dell’animo umano: il sentimento della solitudine e della dispersione e, poi, la sensazione spesso palpabile della inutilità del nostro trascorrere e del nostro agire.
In quante circostanze ed occasioni, anche nell’arco della medesima giornata, proviamo l’ambascia dello smarrimento di fronte alle soverchianti forze cosmiche e ci sentiamo soli, sperduti, schiacciati dal peso insostenibile delle vicende umane le quali, una volta che ci sembrano raggiunte e dominate, è proprio quello il momento in cui ci sfuggono nuovamente di mano provocandoci sconforto, amarezze e delusioni.
E’ la stessa solitudine di chi ha ingaggiato, nella politica e nel sociale, un’appassionata tenzone per il trionfo dell’equità e della severità morale e si trova, invece, obbligato a dover ripiegare a cagione della incongruità delle sue pur vigorose e profuse energie, perché incompreso e, a volte, anche criminalizzato.
A ciò si accompagna, inevitabilmente, il devastante senso dell’avvertita inutilità delle proprie azioni, ancorché degne e nobili, in quanto le mete prefissate evaporano e si rendono evanescenti a fronte del cozzare contro i muri dell’omertà mistificatrice e dell’apatia utilitaristica.
Sopravviene, allora, un desiderio smisurato e irrefrenabile di affidare a “carta, penna e calamaio” il compito di essenzializzarsi come all’interno di uno scrigno magico dove custodire gelosamente le confessioni più intime e segrete, confidate prima a se stessi per poi, se del caso, divulgarle a beneficio delle intere “civitates”.
Se così è e così sarà, lo scrivere non assolverà solamente al modesto ruolo di generico sostegno al vivere, bensì a quello di gran lunga più edificante di ausilio eccellente al “Primum Vivere”, avendo cura di intendere l’avverbio “primum” quale prefisso connotante la dignità umana in tutte le sue poliedricità ed articolazioni.