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Home Politica

Di miopia si può anche morire

Redazione by Redazione
7 Agosto 2012
in Politica, LETTERE PROVINCIALI, Archivio notizie
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«Si rinnova la tensione politica tra Orvieto e il suo comprensorio dopo l’approvazione del piano rifiuti. Il sindaco Toni Concina e l’assessore all’Ambiente Claudio Margottini hanno mal sopportato l’iniziativa dei sindaci del Pd sul sostegno alla creazione di un polo innovativo del riciclo e del riuso a Fabro. …. “Peraltro – aggiunge ancora l’assessore – si sono accorti che nel Dap regionale 2012-2014 non esiste la parola riciclo? Ed inoltre che tale Dap prevede esclusivamente il potenziamento dell’impiantistica per la selezione, il trattamento e riuso dei rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata? Dove sta scritto nel Dap che in relazione alla presenza della discarica si ha diritto ad investimenti?”. “In conclusione – afferma il sindaco Concina – piuttosto che boutade aventi il solo scopo di non legittimare le buone idee di altri, in questo momento particolare vorrei invitare la comunità politica dell’Orvietano a riprendere un percorso unitario e ridiscutere del proprio futuro. Si chiama empowerment, la capacità di una comunità locale di costruire il proprio futuro sulla base di una forza che è la propria storia ed identità”.» (Da una notizia su OrvietoSi del 04.08.2012)

 

Ritengo che la notizia che il Direttore ci propone di commentare sia di quelle che vanno definite come rappresentazione emblematica (in termini di critica artistico-letteraria si potrebbe dire addirittura plastica) dello stato dell’arte in ambito politico-istituzionale del nostro territorio.

Di che cosa si tratta è presto detto: il 2 agosto l’assemblea dei Sindaci dell’ATI4 approva il Piano d’Ambito per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti nel territorio della Provincia di Terni; in tale sede i Sindaci del PD del territorio orvietano, con un documento reso noto prima dell’approvazione del Piano, rivendicano “la possibilità che il territorio, in relazione alla presenza della discarica, possa essere luogo deputato a investimenti, come del resto già previsto nel DAP regionale, che permettano la realizzazione di un polo innovativo del riciclo e del riuso che in parte sopperisca ai disagi che l’impianto di Le Crete comporta in ambito comprensoriale”; in quella stessa sede uno dei Sindaci dell’Orvietano (il cui nome viene taciuto) rivendica per il comune di Fabro l’ubicazione del polo del riciclo e del riuso; il Sindaco di Orvieto e l’assessore all’ambiente Claudio Margottini convocano una conferenza stampa e reagiscono duramente sia al documento che alla rivendicazione, che definiscono un vero e proprio tentativo di scippo di una proposta elaborata e avanzata mesi fa dal Comune di Orvieto.

Perché questa notizia a mio avviso va considerata emblematica dello stato politico-amministrativo del nostro territorio? Semplicemente perché mette a nudo sia il fatto che non esiste una visione condivisa né di ciò che interessa il territorio inteso come bene comune, né delle strategie per raggiungere gli obiettivi che interessano tutti, indipendentemente dai colori politici, sia il fatto – ed è aspetto ancora più grave – che non si ha la minima consapevolezza del contesto generale in cui i problemi attuali del territorio andrebbero da subito inseriti.

Vediamo più da vicino. Il Piano d’Ambito rappresenta di sicuro un passo avanti rispetto alla situazione fino ad oggi esistente: finalmente diventa un obiettivo ravvicinato la raccolta differenziata (65% nel 2013, timidamente anche verso i rifiuti zero) e si afferma appunto la necessità di realizzare impianti moderni per il riciclo e il riuso connessi a tale obiettivo. Perciò si dovrebbe parlare di un primo significativo successo e un seppur lecito scetticismo della ragione dovrebbe lasciar posto ad un più produttivo ottimismo della volontà. Nel contempo andrebbe onestamente riconosciuto all’assessore Margottini e all’Amministrazione di Orvieto di aver fatto un buon lavoro per questo obiettivo e nella direzione del riciclo, e di conseguenza ci si sarebbe aspettati che, invece di introdurre elementi di contrasto, si fosse registrata un’adesione convinta di tutti i Sindaci (e non solo di essi) e una spinta fortissima a far partire quanto prima sia la raccolta differenziata spinta su tutto il territorio, comprensoriale e provinciale, sia il programma e il progetto per la realizzazione rapida degli impianti di riciclo. Invece no, si va in direzione opposta, si introduce una competizione sulla localizzazione degli impianti. Cascano le braccia. Domanda: dov’è la politica? E dov’è la classe dirigente?

Ma perché anche in questa occasione si ripete una ‘narrazione’ già ampiamente ‘narrata’ (linguaggio vendoliano)? Perché appunto ne ‘narra’ la vicenda del tribunale, quella della riorganizzazione del sistema scolastico, quella della sanità, quella dello sviluppo turistico, quella della cultura, ecc. E ne ‘narra’ nel senso che racconta di una politica che si occupa a mala pena del giorno per giorno, senza visione e sostanzialmente senza logica, con la conseguenza che eventuali risultati positivi di fatto vengono affidati esclusivamente a congiunzioni astrali favorevoli, peraltro di questi tempi altamente improbabili. Ma perché dunque si ripete il già visto? Io penso perché appunto non c’è visione né di ciò che realmente sta accadendo né di ciò che bisogna fare, pur scorrendo la realtà senza veli sotto gli occhi di qualunque osservatore che non abbia naturalmente paraocchi o monti consapevolmente lenti deformanti.

Accade infatti che tutto sia in movimento a livello macro (zone del mondo, nazioni, regioni). Per cui tutto va reimpostato anche a livello micro. Tutto andrà riorganizzato, a partire proprio dall’assetto istituzionale e dalle politiche di sistema. Si dovrà sempre, per ogni cosa, partire dai territori e ogni politica che guardi a soluzioni stabili dovrà affidarsi ad una generosa capacità di superare i particolarismi, costruire ampie piattaforme unitarie di crescita e, per territori come il nostro, conquistare un ruolo fortemente dinamico in ambito interregionale (per noi, Umbria Occidentale, Alto Lazio, Bassa Toscana). A mio parere se non si fa così non si esce da quell’imbuto in cui ci siamo messi da tempo e che ci sta portando ad una condizione di nuova e più pericolosa marginalizzazione, che diventerà sempre più rapidamente irreversibile decadimento.

Si dovrà fare l’Unione speciale dei comuni. Su quali basi? Per quale politica? Si deve discutere di Provincia di Terni e dunque anche di nuovo assetto dell’Umbria. Si dovrà anche in controluce pensare al futuro stesso dell’Umbria? Insomma, ci si rende conto o no che l’epoca dei giochetti è finita e che attardarsi in logiche miopi significa essere – oggi più stupidamente di sempre – seguaci di Tafazzi? Che si aspetta a dare ad ogni pensiero, ad ogni questione, ad ogni ipotesi di soluzione, un taglio territoriale? E insieme anche un taglio di forte spinta alla modernizzazione dei metodi e delle soluzioni? Nello stesso giorno in cui esce questo numero di Ping Pong il Consiglio comunale di Orvieto discute una proposta di convenzione con l’ANCI per la gestione del patrimonio. Mi riservo di tornarci sopra in altra occasione, ma già ora non posso evitare di chiedermi e di chiedere: ci si porrà in un’ottica di interesse territoriale (in questo caso di natura almeno regionale e interregionale) e appunto di spinta alla modernizzazione o l’ottica sarà solo stracittadina o addirittura solo stra…che?

Domanda birichina inevitabile: ma se non si riesce a trovare un terreno comune di pensiero e di azione neanche a livello di territorio orvietano su una questione intrinsecamente territoriale come è il sistema di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi, come si può pensare di fare politiche territoriali in senso più ampio? Lo so, superare questa situazione, che non esito a definire drammatica, prima che un compito delle amministrazioni è un compito della politica. Ma dov’è la politica? Boooh! Passo volentieri la palla a Pier Luigi.

Franco Raimondo Barbabella

Franco mi passa questa palla quasi con un gesto di stizza. Stizza giustificata, ma oggi non sono nello stato d’animo adatto per calare un carico da undici di pessimismo in una partita già deprimente. Sarà colpa del caldo di agosto. Ma mi capita, con tutto il rispetto e fatte le debite proporzioni, una situazione simile a quella descritta dal Carducci in “Sogno d’estate”.

Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti

la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra ‘l sonno

in riva di Scamandro, ma il cor mi fuggì su ‘l Tirreno.

Sognai, placide cose de’ miei novelli anni sognai.

 

Nel leggere degli scontri tra gli amministratori dei nostri comuni, parodisticamente assimilabili a pugnaci eroi omerici, il cuore mi è fuggito sul panorama istituzionale dei miei anni giovanili. Allora si sentiva il peso dello Stato anche negli enti locali, e nello Stato la grande maggioranza degli Italiani si riconosceva. Lo dimostra il fatto la gente correva in massa a votare e le Prefetture, organi periferici dello Stato addette anche a tenere sotto controllo gli enti locali, erano un punto di riferimento contro l’inadeguatezza e anche contro i soprusi dei politici locali. Quando vinsi il concorso di segretario comunale, sapevo che andavo nei Comuni a tenere in equilibrio il principio della legalità con quello dell’autonomia. Non posso che ricordare con nostalgia la soddisfazione che provavo ogni volta che un cittadino mi si rivolgeva dicendo: «So che di lei mi posso fidare. Mi dica, ciò che sta facendo l’autorità comunale nei miei confronti è legale o non è legale?». C’erano pure le zone controllate dalla mafia, dove il senso della Stato era debole e molti cercavano protezione in un ordinamento antagonista che aveva regole e tribunali e non aveva abolito la pena di morte. Quello era un cancro non facile da estirpare, tanto che ancora oggi fa del male. Ma dal Mezzogiorno delle mafie salivano al centro e al nord fior di funzionari prefettizi e ministeriali che avevano, e come, il senso dello Stato. Figli studiosi di una piccola borghesia che preferiva lo strappo delle radici alla vita umiliante in una società che non riusciva ad accettare la modernità e lo Stato di diritto.

C’erano i comunisti, che non erano tutti assetati del sangue dei vinti, ma lottavano per realizzare la loro utopia attraverso elezioni democratiche. Avevano il loro senso dello Stato e, almeno a livello di classe dirigente, non avevano la minima voglia di finire sotto le grinfie dell’Unione Sovietica. C’erano i neofascisti, che non erano tutti massacratori di eroici partigiani. Avevano il loro senso dello Stato, che avevano maturato nell’ambito di un regime autoritario che aveva sedato le mafie, aveva eliminato, almeno nel Centro-Nord l’analfabetismo, aveva combattuto con efficacia la delinquenza e aveva realizzato imponenti opere pubbliche e riforme sociali. E poi c’erano i democratici di varie etichette, che prevalevano nelle elezioni e riuscivano a conciliare uno straordinario progresso economico con la tenuta complessiva di un Paese difficile. Avevano tutti il senso dello Stato.

Chiedo di essere compatito se penso che i guai siano cominciati con l’istituzione delle Regioni, soprattutto quelle fasulle per geografia, per storia e  per dimensioni insufficienti a razionalizzare i costi, a cominciare dall’Umbria. Gli enti locali furono abbandonati progressivamente a se stessi. Si ridusse il senso dello Stato e mai si formò, se non negli Italiani di lingua tedesca, il senso della Regione.

Quando mi accorsi che i cittadini mi consideravano ormai un lacchè del sindaco, se non caddi nello sconforto fu perché avevo maturato gli anni per dare le dimissioni senza perdere la pensione. Il guaio è che anch’io mi consideravo un lacchè. Mi salvarono lo studio, l’esperienza e il brutto carattere, ma l’amarezza rimane.

Perciò quando Franco mette il dito sulla piaga di amministratori comunali che si beccano come i polli di Renzo, che guardano il dito e non vedono la luna, che non riescono a vedere quali siano, in questo momento, gl’interessi delle comunità, la mia profonda amarezza rischia di evolvere in perfida soddisfazione.

È di tutta evidenza, per concludere, che un territorio come quello orvietano, non ha possibilità di contenimento della crisi e non ha speranza di sviluppo se non si proietta su quella che con definizione, che non riesco a farmi piacere, chiamano “area vasta”. Ma la Regione costituisce un inciampo sia psicologico, sia partitico, sia istituzionale.

La crisi che sta mordendo lo Stato, le regioni e gli enti locali, dovrà aver pure qualche effetto benefico. Dovrà farci capire che  solo lo Stato può salvarci dalla crisi globale e dalla crisi interna. Il taglio dei finanziamenti, imposto da uno Stato che ha ritrovato se stesso, dovrà convincere gli amministratori locali, come sembra aver convinto i politici nazionali, che chi non ha doti di intelligenza per interpretare questo momento storico, di sensibilità per comprendere i veri bisogni della comunità, di magnanimità per accantonare il proprio egoismo e di immaginazione per inventare soluzioni nuove, è bene che si tolga dai piedi. Prima che lo prendano a calci.

Pier Luigi Leoni    

 

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