Visto che gli antropologi culturali dei quali Orvieto è abbastanza ricca non se ne sono mai occupati mentre invece e a parer mio la cosa lo avrebbe meritato, né gli studiosi di sociologia comportamentale, anch’essi numerosi tra noi, l’hanno degnato di una pur minima attenzione pur essendo un evento accaduto a casa nostra e che dovrebbe essere capito e spiegato e prima che tutto precipiti nel baratro dell’oblio e si impasti con i resti del passato ho ritenuto utile fornire un’ ultima lettura, con due note a chiarimento, della celebre, almeno per noi orvietani, composizione di Corrado Carini e Nando Feliziola, calzolai, dedicata al “sor Antonio”, ribattezzato poi “l’americano”, probabilmente un sedicente appaltatore o presunto uomo d’affari forse milanese, sicuramente padano, che bazzicò Orvieto in compagnia di amici ai tempi della costruzione del nostro casermone, e cioè nei primi anni Trenta, lasciando sulla Rupe un segno, forse meglio una ferita della quale nella memoria cittadina è ancora percepibile la cicatrice.
Costui, descritto dall’immaginazione collettiva, di bella figura, capello brillantinato, bel sorriso, parola fluida, discorso scorrevole, doppio petto di Caraceni, Borsalino in testa, Scappino al collo, stilografica al taschino, scese dal nord e salì a Orvieto dove si esibì, sicuramente per più giorni, con dei raids nei negozi della Rupe acquistando, consumando o servendosi della prestazioni e colpendo poi con la super arma del superbigliettone qui da noi pressoché sconosciuta e contro la quale i meschini non avevano né resto, né difesa, né consigli da dare dove andare a cambiarlo.
L’ esibizione del foglio da mille avveniva naturalmente dopo che la merce era stata consumata o incartata cosicché al negoziante soddisfatto e stupefatto per la quantità venduta ed il guadagno che ne sarebbe derivato non restava altro che dire “Me la pagherete!”, al che “l’Americano” rispondeva senza indugio “Ve la pagherò!”.
E così l’orvietano “segnava” sul libretto, aspettava sulla porta della bottega che si facesse notte, scrutava in su, scrutava in giù ma l’americano non tornava. Nessun “fil di fumo” si levava infatti da nessuna via, vicolo o cantone. Insomma peggio, ma molto peggio che nella “Madama Butterfly”.
La composizione di Carini e Feliziola immagina e descrive un’incursione da Piazza Cahen fino a S.Andrea evidentemente ripetuta più volte e per un periodo consistente dato che in quei tempi era cosa consueta il “segnare” su un libretto in attesa della fine del mese o della permanenza “in loco” specie per i clienti che ispiravano fiducia e soggezione sia nel vestire che nel parlare.
Delle vittime innocenti vengono citati i nomi o i soprannomi. Sui medesimi ritornerò in sede di un breve commento. Si tratta di orvietani tutti nati nel secolo XIX e scomparsi nel XX.
E’ l’unica storia popolare orvietana tramandata per generazioni senza che ne sia stato mai proposto a stampa un testo “originale” anzi, passando di “voce” e considerata la “vena” dei nostri artigiani il testo subì modifiche con aggiunte o sottrazioni di quartine. Esistono altri esempi di tradizione orale popolare orvietana ma l’”Americano” li assorbe e li rappresenta tutti.
Poi l’artigianato si ammalò, le botteghe chiusero, ma l’”Americano” sopravvisse.
La versione che propongo l’ho tratta un po’ dalla mia memoria, un po’ da quella di altri e un po’ appoggiandomi a un testo comparso anni fa su una pubblicazione dal titolo “Il Foglio d’Argento”. Dovremmo così essere molto vicini all’originale
Ed ecco i versi di Carini e Feliziola:
Co’ l’espresso da Milano
venne giù l’Americano.
Spenne, spanne, se la gode
e incomincia a pianta’ chiode.
Se presenta giù da Fuso
e lo mette fori uso.
Detto fatto se la fila
sul libretto so’ dumila!
Bottolone ‘r tabaccaro
c’è cascato paro paro.
Ne lo smercio e ne ‘l consumo
so’ ducento annate in fumo.
Da le parti de Pistrella
ce sta pure l’Ervirella.
Nun se sa quante saranno
je c’è preso anche l’affanno.
Co’ tre amici del mestiere,
è cliente de ‘r barbiere,
E Sciocchino tutto zelo
pure lue ce lascia ‘r pelo.
Conosciuta la Nunziata
ecco fatta la frittata.
-‘Sto ragazzo fa per me,…!-
So’ ducento al ventitrè.
Lì da Nando Montanucci,
panettoni e cavallucci,
‘na bottija de moscato,
(pure ‘n prestito c’è stato).
Lo trovammo in latteria
tutto pieno d’allegria.
E Mariano mò se lagna:
-M’ha fregato la sciampagna!-
Da Martino ‘r caffettiere
chiama tosto ‘l cameriere:
-Porta paste e cioccolata!-
Pure lue cià l’impiombata.
Anche Peppe del Tocciaro
c’è cascato paro paro,
ché concorse per omaggio,
a le spese de ‘r viaggio.
Sarachino l’ha carzato
perché deve ave’ pensato,
si domani ha da scappa’
senza scarpe come fa?
Mentre infuria ‘l pandemonio,
bbonasera sor Antonio,….
Nel parti’ parea dicesse:
-Ve saluto care fesse!-
Fu così, corpo de Bacco,
che l’amico arzava ‘r tacco.
Tra le pene e tra le lagne
mezz’Orvieto lasciò a piagne!
“Fuso” il cui vero nome era Vincenzo Monachello, gestiva una trattoria, e cioè “vino e cucina”, proprio all’inizio del corso Cavour venendo da Piazza Cahen. Era il primo luogo di ritrovo per tutti coloro che salivano a Orvieto con la Funicolare ed ancor più per quanti venivano su scalando le Piagge. E’ probabile che il sor Antonio sia stato cliente di Fuso, magari in compagnia di amici, per un periodo discretamente lungo mangiando e bevendo a volontà e facendo “segnare” tutto come era l’usanza e presentandosi l’ultimo giorno con un bigliettone con tre zeri che il povero “Fuso” non aveva mai visto ed al quale non sapeva come dare il resto. Ma forse è anche verosimile che i verseggiatori abbiano un po’ esagerato con quel “dumila”. Duemila lire dei primi anni trenta erano una cifra molto alta (Un operaio guadagnava al massimo cinque lire, cioè uno scudo, al giorno).
“Bottolone”, soprannome di Ottavio Stramaccioni era il gestore di una tabaccheria sul Corso all’altezza della Chiesa dei Servi. In quell’epoca i tabaccai vendevano generi di monopolio e cioè sigari, sigarette, trinciato, cartine, valori bollati, cioè cambiali, francobolli, lettere e cartoline, carte da gioco, fiammiferi di legno, svedesi, cerini, minerva e il sale da cucina grosso e fino perché anche il sale era una merce della quale lo Stato aveva il monopolio.
“L’Ervirella” era Elvira Grassini e anche lei come Fuso gestiva una trattoria “vino e cucina” sempre lungo il Corso all’altezza di S. Stefano e di Via Montemarte. In Orvieto tali esercizi erano numerosissimi. Basta ricordare l’Orso e la Claudina. La Cava ne aveva almeno tre. Evidentemente l’”americano” oltre ad avere un robusto appetito era anche un buongustaio.
“Sciocchino”, vero nome Adelio Sciucchini, gestiva un “barba e capelli” di un certo prestigio sempre sul Corso all’altezza del vicolo Raffaello da Montelupo, cento metri sotto S.Angelo.
La “Nunziata” era Beritognolo Annunziata e all’epoca gestiva
la “Trattoria del Moro” in via di S.Leonardo peraltro ancora attiva.
Decisamente l’”Americano” aveva un appetito implacabile. Carini e Feliziola lasciano però qui trasparire, e con un po’ di malizia, quasi un’ ombra di trasporto e simpatia della donna verso l’uomo, (‘sto ragazzo fa per me,…), il che renderebbe la vicenda ancora più comica e amara. La trattoria disponeva pure di camere. L’americano dovrebbe averne utilizzata almeno una.
“Nando”, Fernando Montanucci era il titolare dell’ ancora attivo ed elegante Bar Montanucci quasi all’inizio del Corso Cavour. Qui a quanto si intuisce l’”Americano” si deve essere superato perché dopo aver consumato, sia lui che gli amici, riesce anche a farsi prestare una cifra a suo dire indispensabile onde evitare altri antipatici intoppi in altri negozi prima di arrivare in Banca a “cambiare”.
“Mariano” era Duranti Mariano notissimo gestore dell’omonimo caffè in Piazza del Popolo, famoso per i suoi gelati e i suoi tavolinetti all’aperto.
“Martino” era Mario Martini titolare del piu famoso locale pubblico di Orvieto nell’anteguerra, il famoso “Caffe Martini” in Piazza Vittorio Emaunuele II, oggi Piazza della Repubblica o più comprensibilmente Piazza di S. Andrea. Era il ritrovo un po’ esclusivo per nobilotti locali, per signorotti che vivevano di rendita, per proprietari terrieri, fattori, sottofattori e tutta una miriade di “clientes” che ruotava loro intorno. Insomma al Caffè Martini” il soldo girava, anzi era usanza dei ricchi portare in tasca un “rotolo” di bigliettoni e tale che si notasse anche dall’esterno.
“Peppe del Tocciaro” era Giuseppe Carletti. Evidentemente anche lui ebbe il buon cuore di prestare qualcosa all’”Americano”, individuo veramente strafortunato e straconvincente.
“Sarachino” di cognome faceva Grancini e aveva una bottega di calzolaio lungo il Corso e deve aver omaggiato il sor Antonio, cliente di riguardo, con un paio di scarpe di riguardo fatte a regola d’arte. Forse l’ “Americano” girava per Orvieto con le scarpe “sfonnate”!
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Questo era dunque un campione dei nostri concittadini di circa ottanta anni fa, cioè di prima della guerra. Ma era, come dicono oggi quelli dei sondaggi, un campione significativo,…?!
E noi siamo migliori di loro,…?! O peggiori,…! O più furbi,…?! O più tonti ancora,…?! Perché questa storia è vera e noi siamo i loro eredi diretti,…! Che dire allora,…! Booh! Vedete un po’ voi che leggete,…! La filastrocca fa sorridere ma dovrebbe anche far meditare,…!
Un’ultima considerazione: ma come avrà fatto il sor Antonio a sapere che Orvieto sarebbe stata un terreno cosi fertile,..?!
Dimenticavo: l’”Americano” non va letto, va “canticchiato”,..! E’ un “arietta” facilissima che avrete sentito tante volte!
Buona canicola!