“Sarebbe consolatorio poter pensare che ci troviamo sull’orlo del baratro conservando l’illusione che con un salvifico scatto di reni possiamo recuperare la perduta condizione.
In realtà non esiste alcun baratro e nessuna “ora x” da scongiurare. Il danno non deriva dalla sequenza di eventi sottrattivi che fisiologicamente si sono e si stanno verificando a causa del necessario dimagrimento della Stato comprese le chiusure delle caserme militari, dei tribunali minori, delle ASL minori e perfino delle province minori.
Del resto la Stato aveva già ampiamente provveduto a Orvieto qualche anno fa attraverso una legge speciale erogando centinaia di miliardi delle vecchie e amate lirette.
L’ impoverimento è la conseguenza delle mancate innovazioni o più semplici sostituzioni a cui avremmo dovuto provvedere attraverso efficaci politiche locali e l’insoddisfazione che proviamo oggi nel guardare una cittadina minore non possiamo attribuirla alle crisi economiche congiunturali ma si deve prendere atto che si tratta di un ridimensionamento diventato, ormai, strutturale.
Si può modificare questa condizione insoddisfacente divenuta definitiva per Orvieto?
Certamente sì, ma chi se ne sta occupando adesso o chi vorrà occuparsene domani, deve muovere molti passi avanti verso la visione e la creatività con mezzo centro storico da progettare e da ridefinire e, allo stesso tempo, deve muovere molti passi indietro rispetto alle vibrate proteste e agli accorati piagnistei. Infatti il peso politico per muovere le cose, come la leadership, non si può rivendicare: o ce l’hai o non ce l’hai !
Perciò riunire il Consiglio comunale a due terzi di un mandato inconcludente insieme a un Consiglio provinciale che è già tra quelli indicati da sopprimere per discutere e deliberare sulla soppressione del Tribunale di Orvieto è un evento assai facilmente inconcludente oltre che cupo, somigliando straordinariamente alla trama de ” La notte dei morti viventi”. (Orvietosì, 29 giugno).
Bene ha fatto il Direttore a proporci senza tagli questo corsivo di Massimo Gnagnarini, che ci gratifica con un bel parlare fuori dai denti. È vero che lo facilita la residenza a Terni, dove svolge una professione difficile e impegnativa, ma dove le bicchierate con gli amici in pizzeria non gli bastano per chiudere in pace le giornate. Così trova il tempo per pensare alla sua amata Orvieto e per mettere becco nelle questioni politiche locali, che lo attirano come le macchinette con le luci attirano gli insetti; ma il nostro amico si è già scottato abbastanza e sa come svolazzare evitando la friggitoria delle resistenze elettriche.
Massimo è una delle conferme che «ognuno porta il peso della sua piccola storia». Ma il concetto vale per tutti. Vale per Franco, che porta il peso di una lunga stagione da sindaco, di una vita da dirigente scolastico e di una esperienza di guida della società che ha studiato le opportunità del patrimonio pubblico orvietano. Stefano Cimicchi porta il peso della sua lunga carriera di sindaco, di importante agricoltore e di manager pubblico. Essi hanno accumulato soddisfazioni e delusioni e, se ancora sono vigili, critici e propositivi sulla scena politica orvietana, ciò significa semplicemente che quel che hanno fatto lo hanno fatto con passione. Le grandi passioni, finché si è vivi e vitali, non passano..
Chi mi conosce, sa la mia passione per lo studio e per il lavoro. Ma sa pure la debolezza della mia passione per la politica, che m’attira solo un poco di più del giardinaggio. Mi è più congeniale l’analisi il più possibile distaccata. Con questo non voglio dire che ci azzecco sempre, ma solo che non smetto mai di provarci.
Ebbene, Massimo ha ricordato che per Orvieto, con le leggi speciali, Roma ha già dato. Io aggiungerei l’autostrada, la direttissima e la diga fatta e rifatta. Piogge di miliardi di vecchie lire su una città che ha rafforzato la sua posizione felice sulle principali vie di comunicazione della penisola. Si aggiunga la grande disponibilità di territorio pianeggiante. Allora, se Orvieto affronta la grande crisi del secondo decennio di questo secolo in posizione di debolezza, qualche motivo c’è.
Ben le sta la definizione di «città narrante», nel senso che chiacchiera tanto e produce poco.
Io stesso sono stanco di «narrare» sempre le stesse cose. E addirittura mi sto accorgendo di aver contratto un’abitudine che odio, quella di lamentarmi col sindaco, gli assessori e i colleghi del consiglio comunale del fatto che la gente è scontenta, è sconfortata, ha bisogno decisioni e di speranze. In realtà sono io che sono scontento e sconfortato. Se fossi contento io, non farei che raccomandare il buonumore alla gente scontenta.
Amici intelligenti e saggi proclamano a voce alta o sussurrano a voce bassa, a seconda che abbiano o meno in uggia l’amministrazione in carica, che manca un progetto di città. Il sindaco, che avrebbe il dovere e il diritto di proporlo, sembra brancolare tra assessori che vanno, assessori che vengono e assessori che sono sul punto di andarsene.
Orbene, posto che non si tratta di progettare Brasilia, ma di lavorare su direttrici chiare che abbiano un fondamento solido, credo che tutti i consiglieri comunali e tutti gli orvietani che ragionano abbiano chiaro il concetto che Orvieto è asfittica perché non si sforza di respirare, e anche perché spreca il fiato in chiacchiere. I nemici con vanno cercati a Terni o a Perugia o a Roma. In quelle città si trovano i centri di potere con cui confrontarsi e, se necessario, scontrarsi. È ben vero che i confini amministrativi contano, ma contano anche la storia, la geografia e il carattere di un popolo.
Faccio un esempio. Si tiene nel palazzo comunale di Orvieto un consiglio comunale aperto sulla sanità. L’ospite principale è l’assessore regionale alla sanità, che arriva con un’ora e mezzo di ritardo. In mancanza del principale interlocutore, i consiglieri, il pubblico, gli altri ospiti e i giornalisti aspettano mugugnando. Chi propone, come il sottoscritto, di celebrare il consiglio comunale senza l’assessore viene ignorato. Quindi si aspetta l’assessore, che, senza scusarsi troppo, dice che si era prolungata oltre il previsto una precedente riunione nella quale era impegnato. Tra gli iscritti a parlare secondo il protocollo concordato, solo l’avv. Guido Turreni e il dott. Mario Tiberi rimproverano con asprezza l’assessore, Ma l’imbarazzo è presto superato, anche perché l’assessore non s’imbarazza per niente. Anzi, con flemma di consumato politico umbro, ci propina quanto segue:
a) la Regione sta preparando una riforma della sanità umbra che, nonostante i feroci tagli dei finanziamenti statali, salvaguarderà miracolosamente (commento in sala: «Me sa?») le caratteristiche sociali e progressiste dei servizi sanitari umbri (commento in sala: «Me cojoni!»);
b) l’ospedale di Orvieto (che non era in grado di svolgere le funzioni sue proprie di ospedale di emergenza e urgenza quando i soldi erano tanti) sarà presto adeguato, nonostante che i soldi siano pochi (commento in sala: «Ma che stai a di’?»);
c) l’ospedale di Narni- Amelia si deve fare perché serve un posto dedicato alla riabilitazione (commento in sala: «E perché allora non a Perugia o a Terni o a Orvieto, dove non c’è bisogno di fare un nuovo ospedale?»).
Ho voluto raccontare questo fatto increscioso per dire che, se non si tirano fuori gli attributi, qualsiasi idea si ammoscia.
Pier Luigi Leoni
Quello di Massimo Gnagnarini e’ un pezzo degno di nota, per chiarezza e coraggio, anche se dal mio punto di vista avrebbe bisogno di essere discusso su qualche punto, ad esempio quando asserisce che lo Stato a suo tempo ha provveduto alle esigenze di Orvieto “erogando centinaia di miliardi di vecchie e amate lirette”, come se la legge speciale fosse stata una specie di regalo e non invece il risultato di un’iniziativa locale e regionale di grande respiro progettuale per un’assunzione di responsabilità da parte della comunità nazionale rispetto alla salvaguardia di un monumento naturale e storico di valore universale quale Orvieto oggettivamente e’. Ma commenterò meglio semmai in altra occasione.
Ora mi preme dire piuttosto che Pier Luigi ha proprio ragione ad affermare che se qui non si tirano fuori gli attributi, è del tutto inutile tirar fuori le idee, perché, nelle condizioni attuali, appena escono inevitabilmente si afflosciano e rinsecchiscono. Mi chiedo però: ammesso che si sappia e si voglia tirar fuori gli attributi, se la realtà si fosse rivelata strutturalmente refrattaria anche alla sola manifestazione delle idee (particolarmente di quelle realmente innovative, com’è ovvio), converrebbe tirarle fuori? Viste le esperienze, verrebbe da dire di no. Anzi, sul piano personale potrebbe essere perfino pericoloso.
Non mancano certo esempi in tal senso, ché al contrario la storia ne abbonda: dall’Atene del quinto secolo alla Roma dei Flavi, fino ai giorni nostri, dalla storia grande degli stati alla storia piccola delle città. E noi ne siamo ben toccati. Come non ricordare la prolungata e feroce avversione alle idee che complessivamente sono state denominate Progetto Orvieto e la vera e propria persecuzione che hanno subito coloro che ne sono stati i promotori? E più di recente, come non ricordare la cieca e sorda opposizione alle idee progettuali per Vigna Grande funzionali al rilancio della città e del territorio, fino a preferire l’azzeramento di quell’operazione con danno collettivo grave e prolungato, e anche di far coscientemente male alle persone che per essa si erano sinceramente ed efficacemente impegnate, pur di impedirne il successo? Il tutto con nessuno scandalo e rara (individuale) solidarietà. Naturalmente nessuna pubblica ammenda e naturalmente tutti rigorosamente al loro inviolabile posto.
Perché ricordare? Perché fa bene a chi pensa che si possa guardare avanti senza fare i conti col passato, sia proprio che altrui. Perché, se non digerito bene, il passato sta lì e impedisce il futuro. Perché la verità va sempre affermata (ricordate Hannah Arendt? “…dove tutti mentono riguardo ad ogni cosa importante, colui che dice la verità, lo sappia o no, ha iniziato ad agire”). Perché i fatti indicano, più delle parole, come è messa realmente una comunità.
Una parola di verità la merita anche il coraggio di chi decide di tirar fuori comunque gli attributi. Dico comunque, cioè con la consapevolezza che appunto chi lo fa corre dei pericoli. E’ successo ovviamente anche questo nella nostra comunità. Tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso ci furono alcuni esponenti di una generazione che voleva cambiare lo stato di cose esistenti che tirarono fuori gli attributi. Si scatenò una lotta durissima per impedire loro di andare avanti. Molte cose riuscirono a realizzare, ma quando si arrivò al bivio del non ritorno (conservazione o cambiamento duraturo) vinse la conservazione (con destra e sinistra unite nella lotta). I protagonisti furono disaggregati (in parte si lasciarono disaggregare), la sfida della modernizzazione si arrestò, la paura che si disturbassero assetti locali, provinciali e regionali, cessò. E così le consuete logiche di potere ripresero il loro corso normale.
Qualche tempo dopo ci fu una nuova stagione di sfide, diversa sia per protagonisti che per logica. Anche allora ci fu chi tirò fuori gli attributi e però’ anche quella stagione finì sostanzialmente con una drastica interruzione dei processi di cambiamento ed un ritorno alla tranquilla gestione dell’esistente. Forse e’ anche il caso di aggiungere che l’ostracismo verso chi ha tentato di cambiare in meglio le cose e’ stato esercitato non solo a sinistra. Non e’ forse vero che qualche anno fa, se Pier Luigi Leoni e Stanislao Fella vollero continuare a fare politica, di fatto dovettero, il primo emigrare (politicamente) a Castel Giorgio, e il secondo candidarsi a Porano? Certo, nel loro caso si tratto’ di emarginazione momentanea e meno violenta di quella operata a sinistra, ma di sicuro non meno efficace per garantire chi intendeva conservare le vecchie logiche della vecchia politica: cambiare tutto per non cambiare niente (eterno gattopardismo delle classi dirigenti italiane sotto tutte le latitudini, geografiche e politiche). I risultati di tutto ciò si sono visti ed ogni ulteriore commento e’ semplicemente inutile.
Dunque su questo punto mi pare che si possa concludere dicendo che non basta né avere idee né avere il coraggio di manifestarle se non si verificano anche altre condizioni. Le cose, non saprei dire se per disgrazia o per fortuna, sono infatti molto più complicate: oggi come ieri i processi di cambiamento o mettono in movimento individui e strutture economiche e sociali, e insieme sono frutto di lungimiranza individuale e intelligenza collettiva, o diventano tentativi si’ encomiabili, ma senza che possano anche trasformarsi in conquiste stabili e fruttuose per la comunità.
Torna dunque a bomba la questione del che fare. Perché e’ vero quanto ha detto sabato pomeriggio Monsignor Benedetto Tuzia all’atto del suo insediamento quale nuovo vescovo della diocesi di Orvieto e Todi: “E’ un momento difficile, bisogna recuperare la fiducia, fiducia che e’ sempre legata alla volontà di agire”.
Parole chiare e posizione da condividere con comportamenti consequenziali e coerenti. Da dove cominciamo allora? Beh, cominciamo per esempio col dire che né a destra né a sinistra ci sono idee pronte e adeguate alla bisogna? E che ci sono strategie da costruire con lungimiranza e passione? E che ci vuole gente disposta per questo a tirar fuori gli attributi, naturalmente rischiando anche questa volta la sconfitta ma avendo comunque ben chiare le cose da fare e come farle? E’ qui che Gnagnarini ha ragione: nulla sarebbe perduto se si capisse che questo non e’ più il tempo dei riti istituzionali e dei piagnistei, ma delle emergenze strutturali e degli slanci progettuali.
Vogliamo anche dire che non sarebbe poi così difficile, solo che si fosse disposti ad abbandonare la “logica delle tessere”, sposandone una nuova e diversa, come oggettivamente e’ quella che come COVIP predichiamo da tempo: prevalenza del bene comune su interessi individuali e di parte? Ciò che però comporta premiare le capacita e non le clientele. Quanto sarebbe bello se a questo proposito si ricordassero le idee dei grandi politici del passato! Ad esempio di Alcide De Gasperi, che nel ’49, al congresso DC di Venezia, disse: “… pero’ la competenza tecnica e’ necessaria e non sempre disponibile come la tessera del partito … il Paese oggi ha il diritto di sapere che secondo il nostro sistema non e’ la tessera politica quella che decide quando si tratta di posti di competenza: e i nostri devono sapere che alla tessera intesa come concezione di vita, bisogna aggiungere la competenza. Fortunati noi, se le troveremo associate”. “Sono passati oltre sessant’anni ma il Paese ha bisogno della stessa politica con la P maiuscola. Quella che mette la competenza prima della tessera”, ha commentato Roberto Napoletano, su Il Sole 24 Ore di ieri. Già, la competenza prima della tessera, cioè la politica con la P maiuscola, sarà bene che la invochiamo anche per noi.
Franco Raimondo Barbabella