Che io sia, forse, un inguaribile e romantico sognatore lo riconosco a me stesso, senza mezzi termini e prima di un qualsiasi altro giudizio proveniente da altri. Il mio vagabondare nei sogni, però, non significa affatto un tuffarsi nel surreale, bensì vestire il mantello del delfino alla ricerca dell’onda perfetta. E all’orizzonte, dopo aver cavalcato un’onda quasi che perfetta, non ho intravisto una Orvieto migliore ed anzi, semmai per malagrazia ce ne fosse stato bisogno, l’ho constatata peggiore e peggiorata in ogni suo comparto a distanza di almeno due quinquenni a questa parte.
Responsabilità singole e collettive, antropologiche e morali, certamente; per quelle politiche la ripartizione va suddivisa in porzioni uguali tra inadeguato e insufficiente governo cittadino e insussistenti forze di opposizione.
Mentre farfugliavo sul come uscirne, mi sono ritrovato fra le mani una riflessione ormai attempata ma che, nella sua incisiva semplicità, è oggi più che mai di drammatica attualità. Ho deciso, quindi, di riproporla nei suoi tratti essenziali.
Lo spunto della detta riflessione trasse origine dalle confessioni di due giovani fidanzati che da Roma, per ragioni di lavoro di lui, si erano da circa un anno trasferiti ad Orvieto.
Già una prima stranezza è rintracciabile nel fatto che motivi occupazionali spingano un lavoratore a migrare da una realtà metropolitana ad una di provincia quando, in via di normalità, avviene quasi sempre il contrario; la seconda, da rimarcare con maiuscola sottolineatura, consiste nella dichiarazione resa dalla ragazza che ha attribuito, senza un benché minimo pelo sulla lingua, la fine del suo rapporto di coppia alla permanenza sul pianoro della Rupe tufacea.
Abituata alla vita frenetica, diurna e notturna, di un immenso bacino come Roma e alle sue mille attrattive ed occasioni di impegno e di svago, non ha esitato a dichiarare di essersi sentita alla stregua di una leonessa in gabbia e a definire la nostra città come spenta, triste soprattutto di notte, opaca e idonea ad ospitare solo gli anziani e i vecchi. E’ stato un colpo al cuore per un amante di Orvieto come lo è l’orvietano che Vi scrive!.
Le bellezze paesaggistiche; gli angoli ameni; le piazze ornate da monumenti civili e religiosi unici al mondo; l’enogastronomia di qualità; l’artigianato d’eccellenza nella lavorazione del ferro e dei metalli preziosi, nelle ceramiche e nei trini e merletti; il Mancinelli con il suo nutrito cartellone teatrale e i concerti musicali; Umbria Jazz Winter od altro, ormai, non bastano più a rendere attrattiva la nobile “Urbs Vetus” affinché i forestieri, particolarmente tra i giovani, vi possano vivere felicemente in modo stabile e duraturo.
Eppure io ricordo, avendole vissute in prima persona nei verdi anni della mia età, la vivacità di una città che era presente nelle case degli italiani e degli europei essendo protagonista di eventi televisivi quali “Campanile Sera” e “Giochi senza Frontiere”, la brillantezza delle stagioni teatrali estive alla Fortezza dell’Albornoz di cui, memorabile, fu la rappresentazione del “Miles Gloriosus” di Plauto nella interpretazione di Alberto Lupo e Maria Grazia Spina, l’effervescenza contagiante per l’intera popolazione cittadina dei gemellaggi con la tedesca Lemgo, la francese Saint-Amand-les-Eaux e l’italiana Civitavecchia, culminati nella preparazione di una pantagruelica frittura di pesce effettuata all’interno di un gigantesco padellone.
Con pochi spiccioli e tanta fantasiosa inventiva e per la proficua collaborazione tra Comune, Enti Statali e Azienda di Promozione Turistica, allora sapientemente guidata dall’indimenticato Avv.to Romolo Romoli, furono possibili avvenimenti che, oggi, non possiamo che rimpiangere.
Si dirà: erano altri tempi con esigenze ridotte e attese collettive che potevano essere soddisfatte con limitate risorse finanziarie; è vero, ma il segreto risiedeva proprio in questa magia che era così taumaturgica da consentire alla nostra città di essere viva e pulsante.
Un detto latino, forse poco conosciuto dal grande pubblico, così recita: “Si parva licet componere magnis”, vale a dire che se è lecito paragonare le cose piccole alle grandi è possibile trarre sagaci insegnamenti dalle prime in funzione delle seconde.
Se, poi, scambiamo l’accusativo di “parva” con il dativo di “magnis” e il detto lo trasformiamo in “Si parvis licet componere magna”, avremo allora che, se è lecito mettere insieme grandi cose con piccoli sforzi di buona volontà, non sarà impossibile riportare Orvieto agli allori di un tempo che è posizionato, ancora, dietro l’angolo e che ci guarda con occhi vigili e severi.
Post-scriptum: il verbo “componere” può reggere sia l’accusativo che il dativo; se regge il dativo ha significato di comparare, confrontare, paragonare mentre, quando regge l’accusativo, assume quello di riunire, comporre, assiemare.